lunedì 28 gennaio 2013

La tiroide di Superman

Un giorno, mentre Superman volava ebbe un giramento di testa e andò a schiantarsi contro un palo.
Il mal di testa gli aumentò.
E meno male che ero a bassa quota – pensò e imprecò – sennò chissà cosa mi sarebbe potuto succedere: magari mi capottavo contro l’Air Force One e mi scambiavano per un terrorista, mi sbattevano a Guantanamo...
Poi però scartò Guantanamo perché col suo super udito aveva sentito dire che l’avevano chiuso. Magie caraibiche. E ad ogni modo volando così basso non sarebbe mai potuto entrare in rotta di collisione con qualcosa di diverso da ciò che lo aveva così duramente colpito. Forse poteva centrare una tabella pubblicitaria o una massaia intenta a stendere la biancheria o un vecchio che apre la persiana o… Un palo.
Superman arrestato da un palo. Nemmeno colla kriptonite. Una cosa organizzata da qualche suo irriducibile nemico. Niente.
A dire il vero era già da un po’ di tempo che volava a bassa quota. Non si fidava. Si sentiva stanco, svuotato. Agitato. Per questo si era preso una bella vacanza. Sole, mare. Non la Florida però, troppo umido e poi c’era quella storiaccia dei brogli elettorali che ancora non era riuscito a smascherare. Anzi, non c’aveva capito un accidente. Non era avvezzo alle cose di politica, Superman, ché era, come dire, tutto chiacchiere e distintivo.
Così c’aveva rimuginato su un sacco di tempo. Si era fatto dei bei voletti giù in Texas, fino in Messico, alla ricerca di un po’ di pace e tranquillità ma la vista di quelle matasse di chilometri e chilometri di filo spinato a separare il nulla e poi il muro in un’epoca in cui i muri crollano l’aveva rattristato, angosciato, anzi che non c’era andato a sbattere contro. Si sarebbe trasformato in un cristo.
Venne via impolverato come quei poveracci clandestini tutti gli stessi destini. In poche ore fu a Washington e per poco non lo impallinavano quando fece due passaggi sopra la Casa Bianca a cercar di scorgere il gran capo nero che probabilmente se ne stava seduto nella stanza Ovale senza avere un gran da fare. Sul tetto del mondo a trastullarsi. Un negro. Alla Casa Bianca. E a lui, bianco, bello, muscoloso e famoso per poco non lo accoppavano. Si sorprese delle sue pretese, Superman. Si era fatto –volando sempre a bassa quota e scansando insegne e balconi – migliaia di chilometri, a un passo dalle sospirate ferie, solamente per chiedere al Presidente perché, com’era stato deciso a proposito di Guantanamo, non si chiudesse anche la frontiera col Messico. Chiudere nel senso di aprire intendeva Superman. Aprire. Basta matasse di filo spinato intrecciato e muri e polizia di frontiera a cavallo o col pick up. Basta. Fate andare la gente dove diavolo vuole. Che ve ne importa?
Ma Superman non riuscì a vedere l’uomo colle scarpe lucide e nere poggiate sul tavolo (ovale), non ci riuscì malgrado la sua proverbiale vista che attraversa, quella sì, tutti i muri del mondo. Niente.
Dopo l’11 Settembre niente (nulla) è più come prima.
Non la Casa Bianca e tanto meno il suo nuovo inquilino. C’è uno schermo di piombo che nulla può scalfire. Nemmeno la vista di Superman.
C’è tanto di quel piombo che avranno pensato di farci un allevamento ittico, pensò strabuzzando gli occhi Superman che conservava ancora un briciolo di houmor malgrado il precipitare degli eventi.
La fiacchezza se la sentiva nelle ossa. Che abbia un cancro? Pensò. E andò di corsa dal medico. Non ce la faceva quasi a volare ormai. Forse era per via della polvere che gli si era infilata in ogni piccolo poro della sua ormai datata tuta blu che aveva perso l’originaria elasticità così come le sue super cartilagini, giù al confine fra il Texas, il Nuovo Messico e il Messico.
Si ricordava di avere visto un film, un gran film, ambientato pressappoco da quelle parti: Le tre sepolture. Una storia sordida sull’immigrazione e non solo. (In) Giustizia, violenza, polvere e centri commerciali. E una donna sola senza più sogni ormai.
Con questi pensieri cupi arrivò allo studio medico un po’ sollevato dal sentirsi malato (si sa che i guai altrui…) ma si accorse che non aveva rinnovato l’assicurazione. Cazzo. Si lasciò sfuggire Superman a voce alta il che causò uno tsunami nella baia dell’Hudson.
      Che Paese del cazzo è un Paese che ti lascia morire se non c’hai il tagliandino come sul   
      parabrezza della macchina?
      E il bollo? L’avrò pagato il bollo?
Sull’orlo della più cupa disperazione incontrò un tale che aveva conosciuto quand’era giovane e al massimo della forma e ancora lui combatteva i comunisti mangiatori di bambini e troskisti. Rambo gli faceva un baffo a quei tempi. E il sogno americano gli pareva possibile.
Il tale si ricordava di tutte le sue imprese più belle anche se non tutte perfettamente riuscite, come la Baia dei Porci o l’assassinio di Allende, e gli disse che adesso non gli sembrava molto in forma.
      Sai Superman, io me ne intendo, sono un medico, specializzato, endocrinologo.
      Endo… embé, biascicò un po’ confuso Superman. Io mi sento solo un po’ fiacco e caso mai, per quel che ho sentito dire, al limite, ma spero di no, mi ci vorrebbe un oncologo.
      Ma quando mai – rispose l’endocrinologo. Tu, si vede subito, lo sguardo, la voce e poi il collo, il collo, tu sei ipotiroideo. Ti darò delle pillole e poi tanto sole, iodio, ecco quel che ti ci vuole. E ritornerai più super di prima.
Per il pagamento non ci furono problemi, d’altronde l’endocrinologo era pur sempre stato un suo fan e poi Superman telefonò in casa editrice e fece spedire all’indirizzo che gli diede il nuovo/vecchio amico medico i primi numeri delle sue, ormai introvabili, avventure.