giovedì 14 gennaio 2016

Sepolcri – Aprile 2015


La settimana Santa spinge la Passione di una città, da secoli controcorrente, che rinasce il giorno in cui Cristo comincia a morire. Una notte da leggenda con lunghe file davanti le chiese del centro storico. Una “movida” composta e silenziosa che si aggira fra i sepolcri tagliando Palermo come una lama. La città vecchia risorge, si ripopola e si riscopre ancora e almeno per una volta viva e vegeta. Non indifferente, apatica, rassegnata o globalizzata, nel senso peggiore del termine. La movida della Passione di giovedì notte riscatta le altre notti dell’anno, in una città insonne per chi si dibatte e si diverte ma anche per chi vuole pace fra le coperte.
La chiesa di San Cataldo brulica di gente che resta in fila per un’ora pur di guadagnarsi spiccioli minuti al suo prezioso ma piccolo interno, poi c’è chi si affaccia sullo slargo dei cavalieri del Santo Sepolcro, e si riappropria della città. Una città che non vede tutta allo stesso modo, però. Le chiese della parte nata dopo la cacciata dei palermitani dalle loro case e dai loro quartieri, negli anni decadenti che portarono al sacco edilizio e all’abbandono, all’oblìo del centro storico, non hanno la forza né la volontà di una Passione che stringe in un inestricabile abbraccio le vie, le piazze e i sagrati della città di mare con i giardini e i corsi d’acqua superficiali o sotterranei che era Palermo. Che per una notte torna ai tempi d’oro. Rimanda immagini grandiose dalle sue piazze avvilite giornalmente da un traffico deprimente, rimanda a disegni di strade e palazzi che profumano ancora oggi di mitteleuropa, rimanda a un crocevia di popoli senza, necessariamente, un conflitto.
L’Oratorio S. Giuseppe dei Falegnami – da cui si entra dalla misconosciuta porticina nel vicolo che da piazza Bologni sbuca in via Maqueda, accanto il palazzo di Giurisprudenza – è talmente piccolo che anche la gente si fa piccola, silenziosa, mentre compiendo pochi passi gira davanti l’altare e torna fuori dopo una fugace preghiera o una riflessione avvolta in un foglietto arrotolato fitto fitto, donato a chi lo accetta: “Non chiunque parli in modo ispirato è profeta: è dai comportamenti che si riconosce il vero profeta”. 
La Passione della settimana Santa nella notte dei Sepolcri mescola lo spirito della città, delle sue chiese, dei suoi abitanti con antiche credenze e amletici dubbi. Sacro e profano si fondono e trascinano uomini, donne, vecchi, bambini, unendo palermitani, siciliani, italiani, forestieri, viaggiatori, credenti ferventi  o scettici irredenti. Palermo dalle sue viscere mostra forse il suo vero volto. Che la maggior parte di noi farà fatica a trovare altrove, o in un altro, vano momento.     
alessio gervasi        

Ballardini, Oscar Wilde & Dell'Utri – prima di Natale 2015


Nessuno chiede a Ballardini se mangerà o no il panettone ma lo riveriscono e lo coccolano un po’, mentre lui sta seduto con tre amici a un tavolo e dispensa pillole di saggezza, citando Oscar Wilde: “Amo molto parlare di niente. E’ l’unico argomento di cui so tutto”. Poi il Mister chiosa: “Mi sembra un’ottima metafora calcistica, no?”.
Nel piccolo pub di Mondello Paese – la borgata marinara del capoluogo siciliano – l’atmosfera è rilassata e all’ora dell’aperitivo i soliti avventori bevono e chiacchierano. Quando arriva l’allenatore del Palermo sale l’attenzione ma resta l’educazione. C’è chi gli chiede la formazione e c’è chi gli vuol spiegare il funzionamento del “fungo”, la stufa per esterni in voga su terrazze e verande. E mentre Pino il fabbro, che forse ha bevuto un bicchierino di troppo, non sta nella pelle e per darsi un tono attacca a sciorinare un improbabile dialetto “continentale”, un tale porta il suo bambino/calciatore per una foto col Mister che accetta di buon grado. Ballardini chiede dove giochi il ragazzino e il padre svelto: “Nella Bacigalupo, la conosce?”. Certo, risponde il Mister, mi pare… la squadra, la società di Dell’Utri, no?”. E tutti a ricordare l’ex senatore e i primi passi della “sua” società panormita. Una mezz’oretta, altre foto e Davide Ballardini va via che nemmeno sono le 9. E c’è chi si chiede se pensasse a Zamparini citando il controverso scrittore irlandese. Che magari all’irrequieto presidente del Palermo avrebbe detto: “La Bellezza è l'unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l'una sull'altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l'eternità”.
P.s.
Zamparini nemmeno un mese dopo lo licenzierà. (Ballardini non Wilde) 
(alessio gervasi)
       

il finocchietto di Solunto – Novembre 2015

Il chiacchiericcio e il forte odore di caffè sono distinguibili sin dal piazzale sottostante l’ingresso e provengono dal museo dove stazionano 5 dipendenti dell’area archeologica di Solunto: 3 donne e 2 uomini che per fare passare il tempo del loro turno discettano su tutto. In questi giorni freschi dell’attentato di Parigi la loro attenzione è concentrata perlopiù sulle guerre di religione.
Fa da contraltare a questo nutrito gruppetto, appartenente alla Regione Siciliana come tutta l’area, una donna sola ma anche lei in forza alla benevola Regione, seduta nell’antiquarium su un panchetto basso che è anche la biglietteria da dove comincia la visita alle rovine di Solunto, città fondata dai fenici con Mozia e Palermo e con le quali rivaleggiava nel traffico marittimo.
Sfortunatamente, l’impiegata abbandonata non ha il resto. Il biglietto costa 4 euro e io gliene offro 20: niente da fare non si può entrare. Sono quasi le due del pomeriggio e non c’è anima viva oltre gli impiegati già citati e me. Mentre virtualmente c’interroghiamo sul da farsi passa uno al quale l’impiegata cassiera si rivolge in cerca di spiccioli. Ma non ne ha. Però ha un’idea che propone alla sua collega, essendo anch’egli un altro addetto in forza lavoro alle rovine di Solunto. “Lo fai salire e poi nel frattempo si vede – dice – intanto lo accompagno io”. Prende una cassettina di cartone come quelle che contengono il latte e partiamo. La via principale dell’area è la via dell’Agorà che è lastricata in pietra e subito in forte salita. Fra uno sbuffo e un altro il mio solerte accompagnatore dice che sta salendo perché deve cercare del muschio o similare per una sua amica, per l’albero di Natale… Intanto mi fa da cicerone e giunti a metà salita che ora un po’ spiana loda l’antica strada: “Qui non si scivola – dice – e le scarpe fanno una bella presa, anche quando le pietre sono bagnate”. Ma cos’è quella croce laggiù, faccio io, proprio sopra Porticello. “Quella è una promessa… Perché ai tempi della guerra tutti gli uomini di Porticello non tornarono a casa per tanti anni e allora quando poi fecero ritorno le donne eressero questa croce…”.
La giornata è bella e il sole picchia, siamo arrivati alla vasca dove l’impiegato raccoglitore sperava di trovare il muschio ma nisba. Si consola riempiendo la sua cassettina di finocchietto, perlopiù: “Eh, stasera c’ho la pasta con le sarde…” – dice – mentre con mano sicura e agili salti coglie il finocchietto in posti che sembra conoscere come le sue tasche. Alla sua amica del presepe non pensa più: che mi abbia rifilato una balla, prima? Interlocutoria, s’intende.  
Le nostre strade si dividono, continuo a salire tagliando per un sentiero pieno di erbacce mentre lui colla cassettina già mezza piena rimane nella zone centrale della città. Lo seguo da lontano e lo vedo zompare agilmente fra basole e muretti. E’ anche lui un pezzo di storia.
Sono passate un paio d’ore e ridiscendo dalla collina, incastrata sul monte Catalfano che divide il sottostante capo Zafferano in due come una mela: a sinistra il panorama si apre su quel che rimane dei giardini di Bagheria e a destra c’è il mare a perdita d’occhio oltre Cefalù con l’entroterra a Scirocco e i piccoli borghi di S. Elia e Porticello subito sotto la croce a strapiombo. E’ un posto isolato e incantato ancora adesso e dove non mancavano gli agi, come le terme, e si riescono a distinguere ancora gli elementi di sostegno del pavimento che permettevano il passaggio dell’aria calda per riscaldare le stanze e anche una piccola stanza con pavimento a mosaico che fungeva da vasca. Poi c’è la grande casa patrizia di Leda con pareti affrescate in stile pompeiano. E il panorama sublime con i 4 punti cardinali nitidi e ben visibili. Fanno da contraltare le condizioni in cui versa l’intera area archeologica con molti alberi caduti e ammassati – soprattutto nella parte alta della collina, quella che guarda verso Bagheria e Palermo – e con arbusti, cespugli e insomma la natura che la fa da padrona un po’ ovunque, che compromettono la fruizione del sito pur non riuscendo a intaccarne l’emozione né lo spirito.
Alcuni sentieri comunque non sono percorribili e inoltre sia l’impianto idrico che quello elettrico sembrano al lumicino con fili bruciati – pare per un incendio di un po’ di tempo fa – e numerosi punti acqua quasi tutti senz’acqua né tubi.
L’impiegata abbandonata della biglietteria la ritrovo tale e quale e ovviamente è ancora senza il resto: “Non è entrato nessuno” – dice, e me ne sono accorto visto che durante la visita, a parte l’impiegato raccoglitore che mi ha accompagnato per il tratto iniziale, non s’è visto nessuno. “Comunque, guardi, vada e concluda la visita col museo (quello da dove al mio arrivo si sprigionava l’odore di caffè e il chiacchiericcio), ecco il biglietto. Lei deve fare un servizio su Solunto, no?”. Io ringrazio e sul minuto non mi accorgo che mi ha staccato uno dei biglietti a ingresso gratuito, riservato a parecchie categorie come avevo avuto modo di leggere sul regolamento del sito e lì affisso  che al punto 12 riporta questa agevolazione anche per i giornalisti, ovviamente nelle loro funzioni professionale. Ecco perché…          
Alessio Gervasi

   

domenica 8 febbraio 2015

Il gesto dell'ombrello nella parrocchia del Presidente


Dopo la candelora dell’inverno semo fora. Ma è passata una settimana e non semo fora, piove come Dio la manda all’uscita dalla chiesa San Michele di Palermo, sotto la stella della fede che da due domeniche unisce tutti gli italiani: è la parrocchia del Presidente della repubblica.
Giulia ha 4 anni e non conosce il presidente come i suoi concittadini in questa settimana d’inizio settennato hanno dimostrato. Chi è parente, cugino, amico, collega o solo siciliano. Tutti l’hanno incontrato o salutato, con o senza eucarestia, in questa piazza che tutti dicono mia.
Giulia accompagna la mamma che accompagna il fratellino che a 8 anni non ancora compiuti gli tocca il catechismo per 2 anni una volta a settimana e alla domenica messa solenne. Caso vuole nel campanile che da una settimana rintocca per la nazione.
Dal sagrato sconfinato la bambina vorrebbe aprire il suo ombrello ultimo modello Hello Kitty di cui la Repubblica neonatale trabocca. Non abbiamo spezzato le reni alla Grecia e una faccia una razza ma qualche lusso ce lo possiamo ancora permettere. 
Ma Hello Kitty non si apre. Non si trova. E dopo un poco di annaspare senza ragionare, fra una pozzanghera e una burrascata la doccia gelata: Hello Kitty è stata trafugata.
Possibile dice la madre che comincia a sragionare? Qui? Nella parrocchia del presidente che porta la Sicilia e l’Italia tutta unita dalle Alpi alla Magna Grecia?
Bisogna farsene una ragione e spedire il bandito in prigione sibila il fratellino, quello del catechismo per cominciare a capire da che parte soffrire. Sarà stato ladro senza ombrello mamma mia che era bello; l’avrà preso per non bagnarsi senza un poco vergognarsi. Non conosce il catechista quant’è lunga la lista dal vaticano al concilio con in mezzo qualche rogo per reprimere lo sfogo. 
Ruzzola sulle scale la bambina mia e s’inzacchera tutta dopo l’omelia. Ma nella chiesa del presidente di quest’Italia mia non cambia posto la furfanteria.
Ma in chiesa non ci sono ladri (!) saetta a voce bassa Giulia che – per fortuna – non conosce l’ingiuria.
Di gesto dell’ombrello è ancora presto per parlare.

sabato 10 gennaio 2015

Dentro la chiesa di Marillac


Dentro la chiesa di Marillac
La voce di Padre Scordato copre le altre voci dentro la chiesa di Santa Luisa di Marillac, che accoglie le spoglie di Agnese Borsellino col suo numeroso e rumoroso accompagnamento Istituzionale. “Pensavo a una celebrazione familiare, ma ho capito che la vostra famiglia è così grande che comprende tutta questa gente e tanta altra ancora”. Comincia l’omelia Padre Scordato, e subito cita Padre Puglisi, il prete assassinato dalla mafia 20 anni fa, che campeggia in una gigantografia alla sua sinistra, dietro l’Altare. “Ognuno di noi deve fare la sua parte”. Dall’altra parte dell’Altare c’è la statua di Gesù Cristo. Di fronte, Don Scordato ha una chiesa gremita. I primi posti, un po’ alla sua sinistra, sono occupati dai figli di Agnese Borsellino, Lucia, Manfredi e Fiammetta, con mogli e mariti, subito dietro ci sono Salvatore e Rita Borsellino, sorella e fratello del magistrato ucciso ventuno anni fa. Di fronte, appena sulla destra, guardando sempre dalla prospettiva di Padre Scordato, dall’Altare, ecco i primi blocchi istituzionali col Presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro dell’Interno Angelino Alfano, il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e il presidente della Regione Rosario Crocetta; in seconda fila si scorge il senatore Beppe Lumia, ancora più a destra ma in prima fila Leoluca Orlando, dietro di lui il procuratore Roberto Scarpinato, il rettore Roberto Lagalla e il vice coordinatore nazionale di Futuro e Libertà e di quel che rimane di Fini: l’ex parlamentare Fabio Granata. In mezzo, sparigliati, i vertici della polizia col vicecapo Alessandro Marangoni, poi questori, prefetti, pezzi e pezzetti dello Stato tutti sorvegliati da vicino dagli uomini delle scorte che tendono come un arco la chiesa di Santa Luisa di Marillac. Un arco che sembra formato da due parti, due blocchi, preesistenti, predeterminati: da una parte le Istituzioni, la politica e la sottopolitica, dall’altra parte la famiglia Borsellino con gli amici e tanta gente, la gente, la gente comune, la cosiddetta “società civile”. Arrivano incessantemente sin da prima della funzione, stanno composti, “sentono” che forse è una storia che si chiude. Si mettono dove trovano posto, abbastanza indietro, perlopiù, i loro sguardi si incrociano con parenti e amici della famiglia Borsellino. Pure loro dove trovano posto. In questa particolare giornata che sembra accogliere e raccogliere uomini e donne da mondi diversi. Mondi che non si incontrano mai e che quando lo fanno in realtà si scontrano. Come gli sguardi del procuratore Sergio Lari e del ministro Alfano, un attimo appena, un saluto accennato, poi la testa ritorna in asse col corpo, ognuno nel suo blocco: di fronte l’Altare, a sinistra, dietro la famiglia Borsellino, c’è Lari, a destra, fra le Istituzioni, Alfano. Rimbombano le parole di Padre scordato: “Agnese ha dato molto e aveva ormai esaurito tutta se stessa, diceva” “Ho dato mio marito”… Anche per questo – continua Padre Scordato - “Sia fatta verità. Dobbiamo avere il coraggio di cercarla. Perché il martirio non vada sprecato”.  “Ascoltaci o signore”, e si contrae il labiale del Presidente del Senato, quasi una smorfia, in un sussurro, a pochi passi da Salvatore Borsellino che sembra impenetrabile e che subito dopo la morte della cognata ha sibilato: “Adesso finalmente Agnese saprà la verità”. “Scambiatevi un segno di pace”. Ma i due blocchi rimangono separati, distanti. La famiglia Borsellino si stringe si abbraccia si da forza, compostamente. Le Istituzioni si guardano si girano si compiacciono magari senza volerlo, fisiologicamente, sono potenti, spingono i bottoni ma restano soli. In altri contesti si direbbe che se la suonano e se la cantano. Qui, si avverte l’imbarazzo. Solo il sindaco Orlando prende e va ad abbracciare la famiglia Borsellino. Gli altri, dalla seconda carica dello Stato in giù, restano immobili. E non si capisce come non si riesca ad andare oltre il ruolo di presenza politica in rappresentanza dello Stato. Uno Stato ingessato e goffo. O sono i suoi uomini goffi? L’eucarestia vorrebbe dare una risposta. L’Agnello di Dio sorprende il ministro Alfano, il più giovane di colleghi e colleghe seduti accanto, con un’espressione soave eppure smarrita, i due poli che si toccano, un corto circuito che annerisce ogni cosa. Caracolla, esita, gira il capo alla sua destra, verso la famiglia Borsellino, forse vorrebbe avvicinarsi per unirsi nel rito della Comunione ma non ce la fa. Un prete gli sbuca sotto il naso con l’ostia in mano. Lui la prende e con un sospiro si risiede al suo posto tirandosi su i calzoni con un lieve inchino, più rigido e genuflesso che accorato e partecipato. Poi si mette per un po’ la testa fra le mani. La messa è finita. Andate in pace. 

Canto di Natale

Canto di Natale
L’ufficio è un bugigattolo con 2 scrivanie in disordine e una porta aperta su un’altra stanza illuminata a neon. E’ stridente il contrasto col vialetto che vi conduce, ornato di piante ben curate e una fontanella con un giro d’acqua scacciapensieri. L’uomo in borghese fuma fuori dal bugigattolo, dentro tre uomini: due in divisa e un altro, un po’ grassoccio e dall’aria spaesata, in abiti civili. E’ il passaggio fra la prima e la seconda porta carraia, percorso obbligato per chiunque vuole (o deve) entrare nella prigione borbonica di Palermo.
Alla prima porta, dopo aver mostrato i documenti, abbiamo lasciato i cellulari e qualsiasi altro ritrovato della tecnologia che potrebbe compromettere la sicurezza una volta dentro.
Il protocollo del ministero adesso vorrebbe snidare qualsiasi cattivo pensiero: lei è il fotografo? Lei è il giornalista? Quale testata? Segue telefonata nemmeno concitata ma non risultiamo in elenco. Scusate, 5 minuti, mi dispiace ma dovete firmare un’autocertificazione. Data di nascita, luogo, residenza, eventuali processi penali in corso, eventuali parenti di primo, secondo e ultimo grado che sono incappati nelle maglie della Giustizia. Niente da eccepire. Firmiamo. A un punto c’è scritto che se un domani ciò che abbiamo dichiarato dovesse mutare – per esempio l’arresto o l’implicazione in qualcosa di losco di un nostro congiunto – abbiamo l’obbligo di darne comunicazione alla direzione della prigione. E’ fatta. Non c’è voluto nemmeno troppo tempo. La guardia carceraria che ha condotto la procedura si alza, s’inframmezza con fare deciso fra me e il fotografo, ci mette una mano sulla spalla come vecchi amici e con un sorriso a voce calda scandisce: Benvenuti all’Ucciardone.
E’ Natale, il periodo più duro per i detenuti ma anche per i secondini che incappano nella sfortunata turnazione. Lontano dalla famiglia e dalla tranquillità del tinello di casa. Solo i primi non hanno nessuna possibilità di scelta. Tranne quella che a suo tempo li ha spediti qui dentro. C’è la solidarietà di tante persone, gruppi, associazioni di volontariato che ruotano attorno alla struttura e che cercano di avvicinare le vite dei reclusi, di renderle simili almeno in questo periodo dell’anno alle vite degli altri. Guardie comprese, perché entrambi in ogni caso passano parte della loro vita dentro queste mura tanto spesse quanto vecchie.
Il Sert Palermo 4 guidato dal dottor Sergio Paderi, psichiatra, che segue con attenzione le tossicodipendenze dentro il carcere ma non può fare a meno di notare i segnali di un disagio che non è solamente sociale e nel tempo rimarca una diversità culturale che è la linea Maginot fra il mondo esterno e la vita dentro la prigione, ha organizzato – in collaborazione con gli Amici della Musica di Palermo e supportato dalla Asp di appartenenza – un concerto Gospel per i detenuti. Non a caso la scelta è caduta sul Gospel, ossia vangelo, letteralmente buona novella. Il gruppo palermitano Gospel Project porta le note della buona novella fin dentro il primo piano della terza sezione e dirimpetto un braccio ancora chiuso perché ristrutturato da poco, nel piccolo, buio e affollato teatro dell’Ucciardone.
Ucciardone che deriva dal siciliano u ciarduni, a sua volta dal francese chardon che vuol dire cardo: un tempo questa pianta commestibile veniva coltivata nel terreno in cui poi sarebbe sorta questa imponente struttura, che ricadrà in piena città e che iniziò la sua attività nel 1842 con il trasferimento dei detenuti dallo storico carcere della Vicaria. Il coro Gospel per un’ora intensa come un giorno ha riavvolto il nastro.

Mondiali di calcio?


Un’estate per i Mondiali

Quand’ero piccolo io, i cibi non si congelavano e per cambiare canale bisognava alzarsi e andare a girare la manopola del televisore; una necessità, questa, fisica, che però ne scatenava una mentale, posto che bisognava pure scegliere quale canale sintonizzare – girando la manopola diabolica che spesso di canali ne sintonizzava due o anche tre con un incredibile intreccio di trame e storie, film e cartoni, documentari, anche – quantomeno se ci si voleva un poco riposare fra un giro di manopola e un altro. Questo fatto rimanderebbe a un altro problema e cioè che c’era chi, pensando al futuro prossimo venturo, programmava ­– a proposito di canali e dunque il ripetere il gesto di alzarsi dalla poltrona/sedia – e chi invece non era previdente e si alzava di continuo o, perché no, restava in piedi per tutto il tempo che decideva di guardare la Tv. Altra opzione, questa, di quand’ero piccolo io.
Oggi invece, a parte il fatto che i cibi perlopiù si congelano, è come se si congelassero, fatemi passare il termine, anche i canali della Tv, col telecomando, che come il tridente di Nettuno impugniamo comodamente sdraiati sul divano. Il risultato di tale comodità spesso sta nel pisolino cui induce la moderna visione della televisione.
Pisolino che però viene messo a rischio dalla crescente modernità che, pur con tutti gli ammennicoli vari come telecomando, doppio telecomando, video registratore, dvd, Sky, programmi in chiaro o criptati, il più delle volte non consente una libera e scanzonata fruizione della televisione.
I mondiali di calcio appena iniziati – di cui si possono “liberamente” vedere poche partite – sono l’ultima campanella per chi è stato, finora, un po’ duro d’orecchi e non s’è accorto che il calcio, che ha sempre azzerato le classi sociali come una sorta di rivoluzione dal basso che per il tempo di una partita mette sotto lo stesso piano servi e re, non funziona più come una cerniera che chiunque può aprire ma, pur restando e anzi sopravanzando quell’”oppio del popolo” che sta a tutti a cuore per i benèfici effetti rilassanti (rincoglionimento), viene fatto pagare a caro prezzo. Lo stesso, si può dire per il campionato del mondo di motociclismo, per il tennis – pensate a Wimbledon, il “tempio” del tennis che oggi è accessibile solamente per chi sottoscrive un abbonamento e scuce denari – e una serie infinita di film: una programmazione che aumenta, rimarca e rafforza quanto l’anatocismo bancario le differenze di classe e, naturalmente, di portafoglio.
Una cosa, questa, quanto lo stesso anatocismo nelle sue variegate epoche e forme, che, anche se non si congelavano i cibi e non esisteva il telecomando, c’era pure quand’ero piccolo io.
1 (continua)    


Dai mondiali 2014 emergono soprattutto 2 cose. Più altre tante, a cascata. Di cui vi daremo conto in seguito.
1)   Nulla è per sempre e la Spagna ne è testimone. Quel che andava bene ieri non vale una cicca oggi. Il Cile, di Allende memoria – sarà contento Luis Sepulveda – sembra spazzar via il tiki taka iberico come cenere su una brace consumata. E non è solo calcio: la costa del Sol, la costa Brava e palazzoni come a Benidorm per un’edilizia senza freno che ha tenuto alto il vessillo della Spagna sembrano svaniti come e più del crollo economico iberico degli ultimi 2/3 anni. I campioni del mondo ammirati da tutti sono scomparsi. Come il Brasile padrone di casa che – arbitri amici a parte sin dall’esordio – fatica e annuncia sfracelli e suicidi con previsioni di vincitori in un Paese dove le favelas rivendicano sempre più il loro ruolo. Non ci possono essere due motori, due mondi in uno e sempre i ricchi contro i poveri. Il mondo si restringe ogni giorno di più. Anche se pare allargarsi.
2)   Le dirette televisive, che dovrebbero garantire uno spettacolo uguale per tutti, sono  fortemente condizionate dai padroni del calcio e della pubblicità che però, in realtà, subiscono i mutamenti del pallone e i segni del tempo. Tempo che rimanda a un passato ignoto, soprattutto a chi ha memoria corta – nel senso largo del termine – e fatto di colpi di genio, di casualità. Questi mondiali invece, appannaggio di Sky con la cenerentola Rai, restituiscono – nell’epoca di internet e della rete che annuncia in anticipo ogni cosa anche un temporale – una realtà dal basso che annuisce e suggerisce prudenza. E dato che il calcio negli ultimi decenni si è sostituito a quell’oppio dei popoli che per secoli ha governato e schiacciato ogni pensiero, gli scheletri che affiorano sono sorprendenti. Non importa chi vince. In questo caleidoscopio, resiste, per ora, soltanto la Germania alter ego della Merkel che scoppia di salute in tribuna come il partigiano Pertini nel 1982 quando alzava le braccia al cielo per annunciare al mondo la vittoria dell’allenatore colla pipa Bearzot che a gran fatica – e con un  po’ di culo va detto – tirava fuori l’Italia dal ghetto.  
2 (continua)    
                

Io i primi 10 minuti del secondo tempo di Italia Costa Rica non li ho visti. Se n’è andato il segnale – segnale debole o assente – c’era scritto sulla tivvù. Allora prima mi sono infuriato, anche perché la partita fin lì non era messa molto bene, almeno per l’Italia, invece per il/la Costa Rica che ancora non si è capito se questa nazione senza esercito e che ha sostituito il Pil col Pif (prodotto interno felicità anziché lordo) sia maschio o femmina, tutto girava per il verso giusto. Allora, mi sono infuriato e ho cominciato a sbattere le cose e a prendermela con Gasparri, perché di lui mi ricordo, oltre al fatto che, incredibilmente è stato un ministro della Repubblica, come uno degli artefici del digitale terrestre. Che sembra quasi un titolo da cartone animato. Invece era un miracolo (promesso) che anziché moltiplicare il pane o i pesci avrebbe snocciolato canali televisivi come sentenze.
Ma tutte queste sentenze (canali) non arrivavano tranne una: bisognava cambiare antenna, e mettere pure un gingillo come trait d’union nel televisore. Meglio ancora, comprarne uno nuovo, che già il gingillo (decoder) l’avrebbe avuto incorporato. Dunque, il digitale terrestre nemmeno c’era che già si dovevano scucire denari. Al solito. Però, ripeteva il Ministro che una volta si chiamava “delle Poste e Telecomunicazioni” e che, magari a sua insaputa, faceva e diceva cose, però la televisione cambierà (in meglio) e i canali si vedranno di un colore e di un chiarore da paradiso terrestre.
Mentre pensavo tutte queste cose e guardavo l’orologio per capire a che punto del secondo tempo eravamo, con lo schermo (piatto) della tivvù di un nero che nemmeno il mare lontano di notte, ho avuto un lampo, tipico dei momenti di difficoltà quando la mente si accende: la radio. Ecco. La radio, da Nicolò Carosio a “scusa Ameri scusa Ameri”… senza dimenticare Radio Londra, naturalmente. Quante cose ha portato dentro le case e le teste degli italiani. Santo, Marconi.
Spengo la tivvù e accendo la radio. Giro manopole e bottoni e l’apparecchio sputa il gracchiare concitato della radiocronaca senza fronzoli e commenti deficienti come quelli dell’opinionista di turno seduto con cuffia e cravatta in tivvù (quando si vede) accanto al giornalista che conduce la telecronaca.
Però, rimango nervoso pensando a Gasparri. E non capisco se sono nervoso perché non riesco a vedere la partita o se invece, è il pensiero (si fa per dire) di Gasparri a scatenarmi. Oppure perché l’Italia sta perdendo.
3 (continua)    

   

         
Il Brasile, che fa parte del Bric (Brasile, Russia, India, Cina e l’economia che gestisce il resto del mondo) fa la voce grossa col Camerun, già fuori dai Mondiali e anche dalla vita quotidiana del XXI secolo, e con quel che resta del calcio spettacolo, che ci ha abituato, educato fin da bambini a dire: ma che è, il Brasile? – appena qualcosa andava oltre la linea di convenzione in qualsiasi sport – ma poi, via via la convenzione si è applicata a qualsiasi cosa.
Neymar è l’uomo della provvidenza ma sembra un incrocio fra Roberto Boninsegna e Eros Ramazzotti. Anche fisicamente. E ai tempi dell’interista “malacarne” e principe degli sfottò non c’erano steroidi né bombe chimiche, nemmeno Tavernello, forse. Per quanto riguarda il nostro cantante assai amato dagli ispanici, anche lui è un calciatore, delle volte. Ma oggi niente fenomeni tranne che per i commentatori Rai – Sky non sappiamo perché non paghiamo – che si entusiasmano anziché stupirsi per la scomparsa del calcio carioca che a tutti noi ha sempre insegnato qualcosa.
Ora, a parte Marcelo che ha una eccessiva somiglianza col nostro amato attore Ficarra e che ha cominciato il mondiale segnando subito sia pur nella sua porta, contro la Croazia, e dunque svelando sin dal principio che il Brasile di questi mondiali che casualmente si disputano a casa sua non ha nulla a che vedere con il Brasile. Quello vero. Che non c’è più. E forse non c’è più perché i suoi giocatori quasi tutti stanno nei club europei che – Bric o non Bric – evidentemente fanno loro guadagnare di più. Ma quel che fa guadagnare un singolo, 8 singoli o una squadra di calcio, che di singoli si nutre e sempre si è nutrita contrapponendosi al collettivo di squadre meno estrose ma ben più civili come Germania, Olanda anche – che però e pur essendo un po’ creativa non ha mai vinto nulla, o la fu Spagna di tiki taka memoria – fa perdere una nazione che non si è mai fatta imbrigliare in schemi “alla Sacchi” che Berlusconi pescò in quel dì di Fusignano provincia sperduta d’Italia che naufragò nella Marsiglia del gaglioffo Bernard Tapie per un black-out che oltre alle luci del campo rimise in gioco le coscienze individuali.
La Selecao, è quella di Falcao. Pelè andando più indietro. Messico ’70 o Spagna ’82 per citarne due. E il dottor Socrates, prematuramente scomparso anche per la sua propensione al bere, oltre che al pallone, intento a cercar difesa e attacco oltre le sponde calcistiche. E Junior, Zico, Ronaldo & Romario e insomma gente che faceva funzionare i piedi più del cervello o forse organo e supporto si muovevano in un sincrono incontrollato e incontrollabile, che rendeva tutto più accettabile.
4 (continua) 


Mi sto bevendo la 2° Chimay – “tappo rosso”, perché quella “tappo  blu”, esageratamente alcolica, mi pare eccessiva con questo caldo – accompagnata con del formaggio che dà alla testa più della birra, un “Primintio” che mi fornisce la mia salumiera, sudato e molle (ma con una base bella dura) anche quando non ci sono temperature da altoforno come oggi. Mi sto fumando la prima sigaretta della giornata. Sono le 7 e un quarto del pomeriggio ed è stato appena espulso un giocatore dell’Italia che adesso avrà (avremo) un finale di grande sofferenza. I telecronisti della Rai, spaesati come al solito, snocciolano dati e cifre: ci sono 27 gradi e circa il 50 per cento di umidità sul campo di calcio del Mondiale. Qui da me di gradi ce ne sono 33 e l’umidità non è pervenuta. Accendo l’aria condizionata. C’è uno scatto di Immobile che, contravvenendo al suo nome, tenta una sortita fra le file avversarie. Ma il pallino ce l’ha l’Uruguay del presidente operaio Pepe Mujica – uno che è il contrario della nostra nomenclatura Napoletano in testa e che rinuncia ai suoi privilegi e emolumenti e che ha dichiarato, almeno stando a quanto scritto oggi su Repubblica: “Il Real Madrid ha un bilancio di 400 milioni l’anno. Io credo che questi soldi non li abbia spesi l’intero calcio uruguayo in tutta la vita.” L’Italia invece li ha spesi e continua a spenderli in Brasile nel magnifico resort dove alloggiano i nostri calciatori e il loro numeroso seguito. E chissà il conto se proseguiremo in questa ennesima avventura pallonara.
Mi chiama mio figlio che ha 7 anni e se ne frega dell’Italia del calcio e forse anche delle altre e dice: “Papà, devo fare la po po.” Lo accompagno in bagno e gli sistemo il panchetto dove lui poi sistema una serie di riviste e giornali e libri come per un lungo viaggio. Segna l’Uruguay. E’ il 35esimo del secondo tempo. Non ho capito se è stato un colpo di testa o non so che. Siamo al 40esimo. Pietro (mio figlio) è seduto beato in bagno. A uno dei telecronisti gli scappa: “E’ in difficoltà l’Uruguay.” Penso di accendermi la seconda sigaretta. Siamo entrati nel 45esimo. Di mio figlio nessuna notizia. E dire che nel bagno non c’è aria condizionata. Intanto comincia il recupero: 5 minuti. All’ultimo minuto c’è un tentativo di Barolo, ma non va, come una bottiglia di vino che sa di tappo. Mi chiama mio figlio che ha finito di fare la po po. Addento l’ultimo pezzetto di “Primintio” e vado a pulirlo. Non ho nemmeno la bandiera dell’Italia.
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Me ne sono andato a zonzo con la motocicletta. 5 giorni 4 notti. Pure mia moglie. Anzi la sua presenza era fondamentale visto che ho avuto la bella idea di festeggiare così i nostri primi dieci anni di matrimonio.
Siamo partiti dopo la sconfitta ai Mondiali dell’Italia per la seconda volta di fila e dunque 8 anni e dunque più di tutta la vita di mio figlio Pietro che di anni ne ha 7 e che dunque rimane pure lui fuori dai Mondiali. Noi nel frattempo stiamo consumando un matrimonio. L’altra figlia, Giulia, di anni ne ha 3 e nemmeno potrebbe essere ammessa ai gironi eliminatori, giacché la croce dei Mondiali si abbatte inesorabile sulla gente inerme soltanto ogni 4 anni.
Il rumore della sconfitta nelle orecchie sovrasta quello della motocicletta. A ogni curva, a ogni rettilineo, per i primi chilometri per fortuna, lo stolto chiacchiericcio italico dell’indomani è tutto nella mia testa. Professori, commentatori, giornalisti e analisti – nuova figura questa che vorrebbe dare più forza, più enfasi a quella ormai un po’ appannata del commentatore, come una società sull’orlo del fallimento che cambia pelle per sottrarsi ai creditori e proporsi agli investitori – si accapigliano e si raccontano l’un l’altro le loro profezie, i loro: “io l’avevo detto…”, “così non poteva andare…” etc. etc. Mai una voce fuori dal coro. Tutti sul carro del vincitore, quando c’è, sennò gli stessi tutti scappano dal carro a gambe levate. E allora giù botte da orbi ai responsabili del default. Ma siccome non si può imputare il fallimento dell’Italia pallonara a quello dell’Italia tout court, bisogna individuare l’agnello sacrificale, meglio se negro: dagli a Balotelli, lincialo. E’ colpa sua, è incostante e immaturo – certo attorno a vent’anni solo a Scampia o a Bogotà o nelle favelas di Rio, per restare in tema di “Mondiali”, si riesce a essere “maturi” – e non ha fatto i gol che ci servivano.
Balotelli scompare dalla mia testa – che comunque lo difende perlopiù – a 1600 metri sul livello del mare, dietro una curva il cui asfalto rimane un ricordo di quando hanno tracciato la strada dove adesso trotterella una famigliola di cinghiali, scrofa di perlomeno 100 chili in testa.
E’ questa l’Italia, che negli ultimi 50 anni ha cercato, forse inutilmente, di cancellare la sua vocazione agricola e poi con la globalizzazione (parola che come analista e commentatore vuol dire tutto e niente) e i tour operator di merci e persone ha smarrito il mondo contadino che si è riversato in quello cittadino. Che vorrebbe rappresentare il progresso, incompiuto come tutte le italiche trasformazioni da 150 anni a questa parte. 
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Siamo nel centro della Sicilia riarsa. Che dai tempi di Danilo Dolci non ha risolto il problema dell’acqua. Anche se adesso ci sono strutture ricettive erroneamente chiamate “Agriturismo” che hanno delle belle e comode piscine. Chissà dove la pigliano tutta quest’acqua, penso, questi agriturismi di lusso che non producono nulla nemmeno una marmellatina ma negli ultimi vent’anni sono sorti come i funghi. Adesso alcuni hanno mangiato la foglia che hanno mangiato pure i funzionari/ispettori/controllori che magari ogni tanto l’Europa (cioè Noi) manda in giro oltre ai soliti soldi che per quanti finanziamenti sostengono in tutto il continente non ci dovrebbe essere nemmeno un indigente. Hanno mangiato la foglia e hanno sostituito l’appellativo, la scritta, la ragione sociale o che diavolo è “Agriturismo”, con: “Turismo rurale”. Chissà, forse è la nostalgia dell’Italia contadina che ritorna prepotentemente dopo essere stata spinta in città e pigiata dentro falsi contenitori di civiltà e libertà come i call center. Oppure è l’ennesima furberia italica.
Dopo le alte Madonie scacciapensieri, coda appenninica dello Stivale che ha nascosto sotto il tacco la spedizione in Brasile (a proposito di rurale, è un enorme Paese dalle grandi piantagione o fazende con distanze che si percorrono in aereo quanto da noi con la corriera, pur con le contraddizioni e le enormi difficoltà che sta incontrando da quando siede al tavolo dei grandi, forse proprio perché fa parte del cosiddetto Bric che detta l’agenda al resto del mondo) c’immergiamo in secoli di storia, confortati da una solitudine che è difficile da capire. Se si vuol usare la logica.
Il museo regionale di Aidone – che da un paio d’anni ospita la statua di Venere, trafugata anni fa dagli scavi abbandonati e poi esportata e esposta al museo Paul Getty di Los Angeles – si affaccia sulla bella piazza della cittadina assolata e deserta. Nessun turista in giro, tranne noi. Nessun “Turismo rurale” nei dintorni. Solo una modesta trattoria dove si mangia (quasi) come a casa propria. Al Museo, gli impiegati affaccendati nel tentare di far passare il tempo, si lamentano di essere dimenticati: loro, la Venere e Aidone e anche la vicina Morgantina con i suoi preziosi scavi. E dire che a due passi da qui c’è la Villa Romana del Casale che invece macìna turisti e incassi. E pure l’”indotto” gongola, vedere il bar accanto l’ingresso della Villa che fa pagare una bottiglia d’acqua e un succo di frutta e nemmeno seduti  5 euro (…).
7 (continua)


I Mondiali sono passati da un pezzo. Cioè, una quindicina di giorni. Che coi tempi che corrono è moltissimo. L’estate avanza, siamo in quella fase interlocutoria fra l’attesa, l’inizio, che non è uguale per tutti ma solo per quei tutti che hanno o si danno gli stessi “tempi”: vacanze/ferie, villeggiatura, riposo, bricolage, giardinaggio; il tutto concentrato in una massimo due settimane sotto la canicola – almeno a queste nostre latitudini mediterranee – e coll’ansia di fare in fretta. Tutto il resto dell’anno potrà (dovrà) servire a raccontare il divertimento a ogni costo. Tout court. Ensemble.
Ma adesso siamo in quella fase interlocutoria, come dicevamo, fra l’attesa, l’inizio e la fine dell’estate. Che si ripete incessantemente ogni anno così come si ripetono, incessantemente ogni quattro anni, i mondiali di calcio. E si ripete l’attesa, l’ansia, la fine. Un po’ il ciclo vitale dell’uomo da quando nasce e forse anche prima.
Io forse sono più fortunato di questi vacanzieri a gettone e me ne sto nella mia casa di campagna da giugno a settembre. Un luogo sperduto sin dal nome della contrada che mi ha visto nascere e crescere, dapprima senza luce e adesso con i primi lunghi e vecchi neon malamente attaccati al muro o sopra le porte per la felicità di quando, alla fine degli anni sessanta, lo Stato portò fin qui la corrente elettrica, superati alla velocità della… luce e dimenticati in soffitta o in garage o gettati in discarica, non differenziata e spesso anche nel bosco, oppure in qualche torrente ormai sbarrato da pezzi di intonaci, suppellettili e fondamenta (per chi le ha) di case e casupole, frigoriferi. Tutto ciò che la luce ha portato e tutto ciò che nel frattempo si è portata via.
Io sono qui in questa contrada “Romito” che evoca ricordi, panorami e silenzi. Fanciullezza e adolescenza. Un fiume che non abbisogna di corrente elettrica di nessun gestore, visto che la cara vecchia Enel che quarant’anni addietro portò sin qui prese e contatori non è più il fornitore unico e obbligato di un mercato che infatti oggi si chiama “libero mercato”. Ma non tanto libero come ai tempi di lumini, stoppini, spirito, gas, olio e insomma dove veramente vigeva la libera interpretazione di quando e come illuminare il tempo.
Mio suocero è arrivato a casa e non c’era luce. Ma non si è rallegrato ripensando al tempo andato (e dire che lui ha vissuto molti più anni di me al buio) perché ha pensato che lui ha sempre pagato da quando tutti abbiamo la luce che significa – una cosa a caso visto che i Mondiali li abbiamo ancora freschi – in primis: t e l e v i s i o n e. Con buona pace di Hans Magnus Hensebbergher o come cacchio si chiama, lui, che diceva che la televisione è il nulla. Tanto valeva stare anche senza la luce.       
Invece nella mia casa di campagna in contrada Romito adesso c’abbiamo pure l’Adsl, wireless naturalmente.
Mio suocero però è al buio. Dunque senza televisione (e per questo s’incazza e gli scende la lacrima) ma anche senz’acqua perché pare che da quando qui c’è la luce tutti hanno pensato di sottomettere l’acqua che giunge in casa all’energia di un motorino elettrico che la porta su pure dall’inferno se necessario. Però, se se ne va la luce se ne va l’acqua. Mio suocero dunque è senza luce, senza televisione e senz’acqua. A dire il vero l’acqua la potrebbe andare a prendere al pozzo della vicina sorgiva come faceva quarant’anni addietro quando ancora da queste parti corrente elettrica non ce n’era e l’acqua si tirava a mano o al massimo con una pompa meccanica con l’avviamento a cordicella che spesso s’inceppava o ti slogavi il polso e allora ti lavavi e bevevi di meno.
Ma, a parte il fatto che mio suocero nel frattempo s’è un po’ imbolsito e anche invecchiato, questo è l’anno dei Mondiali e la luce deve splendere. Anche se l’Italia è già stata eliminata. Anche se i Mondiali sono finiti. D’altronde una cosa così capita ogni quattro anni. Allora mio suocero si prende di coraggio e va da quelli dell’energia elettrica.
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