sabato 10 gennaio 2015

Mondiali di calcio?


Un’estate per i Mondiali

Quand’ero piccolo io, i cibi non si congelavano e per cambiare canale bisognava alzarsi e andare a girare la manopola del televisore; una necessità, questa, fisica, che però ne scatenava una mentale, posto che bisognava pure scegliere quale canale sintonizzare – girando la manopola diabolica che spesso di canali ne sintonizzava due o anche tre con un incredibile intreccio di trame e storie, film e cartoni, documentari, anche – quantomeno se ci si voleva un poco riposare fra un giro di manopola e un altro. Questo fatto rimanderebbe a un altro problema e cioè che c’era chi, pensando al futuro prossimo venturo, programmava ­– a proposito di canali e dunque il ripetere il gesto di alzarsi dalla poltrona/sedia – e chi invece non era previdente e si alzava di continuo o, perché no, restava in piedi per tutto il tempo che decideva di guardare la Tv. Altra opzione, questa, di quand’ero piccolo io.
Oggi invece, a parte il fatto che i cibi perlopiù si congelano, è come se si congelassero, fatemi passare il termine, anche i canali della Tv, col telecomando, che come il tridente di Nettuno impugniamo comodamente sdraiati sul divano. Il risultato di tale comodità spesso sta nel pisolino cui induce la moderna visione della televisione.
Pisolino che però viene messo a rischio dalla crescente modernità che, pur con tutti gli ammennicoli vari come telecomando, doppio telecomando, video registratore, dvd, Sky, programmi in chiaro o criptati, il più delle volte non consente una libera e scanzonata fruizione della televisione.
I mondiali di calcio appena iniziati – di cui si possono “liberamente” vedere poche partite – sono l’ultima campanella per chi è stato, finora, un po’ duro d’orecchi e non s’è accorto che il calcio, che ha sempre azzerato le classi sociali come una sorta di rivoluzione dal basso che per il tempo di una partita mette sotto lo stesso piano servi e re, non funziona più come una cerniera che chiunque può aprire ma, pur restando e anzi sopravanzando quell’”oppio del popolo” che sta a tutti a cuore per i benèfici effetti rilassanti (rincoglionimento), viene fatto pagare a caro prezzo. Lo stesso, si può dire per il campionato del mondo di motociclismo, per il tennis – pensate a Wimbledon, il “tempio” del tennis che oggi è accessibile solamente per chi sottoscrive un abbonamento e scuce denari – e una serie infinita di film: una programmazione che aumenta, rimarca e rafforza quanto l’anatocismo bancario le differenze di classe e, naturalmente, di portafoglio.
Una cosa, questa, quanto lo stesso anatocismo nelle sue variegate epoche e forme, che, anche se non si congelavano i cibi e non esisteva il telecomando, c’era pure quand’ero piccolo io.
1 (continua)    


Dai mondiali 2014 emergono soprattutto 2 cose. Più altre tante, a cascata. Di cui vi daremo conto in seguito.
1)   Nulla è per sempre e la Spagna ne è testimone. Quel che andava bene ieri non vale una cicca oggi. Il Cile, di Allende memoria – sarà contento Luis Sepulveda – sembra spazzar via il tiki taka iberico come cenere su una brace consumata. E non è solo calcio: la costa del Sol, la costa Brava e palazzoni come a Benidorm per un’edilizia senza freno che ha tenuto alto il vessillo della Spagna sembrano svaniti come e più del crollo economico iberico degli ultimi 2/3 anni. I campioni del mondo ammirati da tutti sono scomparsi. Come il Brasile padrone di casa che – arbitri amici a parte sin dall’esordio – fatica e annuncia sfracelli e suicidi con previsioni di vincitori in un Paese dove le favelas rivendicano sempre più il loro ruolo. Non ci possono essere due motori, due mondi in uno e sempre i ricchi contro i poveri. Il mondo si restringe ogni giorno di più. Anche se pare allargarsi.
2)   Le dirette televisive, che dovrebbero garantire uno spettacolo uguale per tutti, sono  fortemente condizionate dai padroni del calcio e della pubblicità che però, in realtà, subiscono i mutamenti del pallone e i segni del tempo. Tempo che rimanda a un passato ignoto, soprattutto a chi ha memoria corta – nel senso largo del termine – e fatto di colpi di genio, di casualità. Questi mondiali invece, appannaggio di Sky con la cenerentola Rai, restituiscono – nell’epoca di internet e della rete che annuncia in anticipo ogni cosa anche un temporale – una realtà dal basso che annuisce e suggerisce prudenza. E dato che il calcio negli ultimi decenni si è sostituito a quell’oppio dei popoli che per secoli ha governato e schiacciato ogni pensiero, gli scheletri che affiorano sono sorprendenti. Non importa chi vince. In questo caleidoscopio, resiste, per ora, soltanto la Germania alter ego della Merkel che scoppia di salute in tribuna come il partigiano Pertini nel 1982 quando alzava le braccia al cielo per annunciare al mondo la vittoria dell’allenatore colla pipa Bearzot che a gran fatica – e con un  po’ di culo va detto – tirava fuori l’Italia dal ghetto.  
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Io i primi 10 minuti del secondo tempo di Italia Costa Rica non li ho visti. Se n’è andato il segnale – segnale debole o assente – c’era scritto sulla tivvù. Allora prima mi sono infuriato, anche perché la partita fin lì non era messa molto bene, almeno per l’Italia, invece per il/la Costa Rica che ancora non si è capito se questa nazione senza esercito e che ha sostituito il Pil col Pif (prodotto interno felicità anziché lordo) sia maschio o femmina, tutto girava per il verso giusto. Allora, mi sono infuriato e ho cominciato a sbattere le cose e a prendermela con Gasparri, perché di lui mi ricordo, oltre al fatto che, incredibilmente è stato un ministro della Repubblica, come uno degli artefici del digitale terrestre. Che sembra quasi un titolo da cartone animato. Invece era un miracolo (promesso) che anziché moltiplicare il pane o i pesci avrebbe snocciolato canali televisivi come sentenze.
Ma tutte queste sentenze (canali) non arrivavano tranne una: bisognava cambiare antenna, e mettere pure un gingillo come trait d’union nel televisore. Meglio ancora, comprarne uno nuovo, che già il gingillo (decoder) l’avrebbe avuto incorporato. Dunque, il digitale terrestre nemmeno c’era che già si dovevano scucire denari. Al solito. Però, ripeteva il Ministro che una volta si chiamava “delle Poste e Telecomunicazioni” e che, magari a sua insaputa, faceva e diceva cose, però la televisione cambierà (in meglio) e i canali si vedranno di un colore e di un chiarore da paradiso terrestre.
Mentre pensavo tutte queste cose e guardavo l’orologio per capire a che punto del secondo tempo eravamo, con lo schermo (piatto) della tivvù di un nero che nemmeno il mare lontano di notte, ho avuto un lampo, tipico dei momenti di difficoltà quando la mente si accende: la radio. Ecco. La radio, da Nicolò Carosio a “scusa Ameri scusa Ameri”… senza dimenticare Radio Londra, naturalmente. Quante cose ha portato dentro le case e le teste degli italiani. Santo, Marconi.
Spengo la tivvù e accendo la radio. Giro manopole e bottoni e l’apparecchio sputa il gracchiare concitato della radiocronaca senza fronzoli e commenti deficienti come quelli dell’opinionista di turno seduto con cuffia e cravatta in tivvù (quando si vede) accanto al giornalista che conduce la telecronaca.
Però, rimango nervoso pensando a Gasparri. E non capisco se sono nervoso perché non riesco a vedere la partita o se invece, è il pensiero (si fa per dire) di Gasparri a scatenarmi. Oppure perché l’Italia sta perdendo.
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Il Brasile, che fa parte del Bric (Brasile, Russia, India, Cina e l’economia che gestisce il resto del mondo) fa la voce grossa col Camerun, già fuori dai Mondiali e anche dalla vita quotidiana del XXI secolo, e con quel che resta del calcio spettacolo, che ci ha abituato, educato fin da bambini a dire: ma che è, il Brasile? – appena qualcosa andava oltre la linea di convenzione in qualsiasi sport – ma poi, via via la convenzione si è applicata a qualsiasi cosa.
Neymar è l’uomo della provvidenza ma sembra un incrocio fra Roberto Boninsegna e Eros Ramazzotti. Anche fisicamente. E ai tempi dell’interista “malacarne” e principe degli sfottò non c’erano steroidi né bombe chimiche, nemmeno Tavernello, forse. Per quanto riguarda il nostro cantante assai amato dagli ispanici, anche lui è un calciatore, delle volte. Ma oggi niente fenomeni tranne che per i commentatori Rai – Sky non sappiamo perché non paghiamo – che si entusiasmano anziché stupirsi per la scomparsa del calcio carioca che a tutti noi ha sempre insegnato qualcosa.
Ora, a parte Marcelo che ha una eccessiva somiglianza col nostro amato attore Ficarra e che ha cominciato il mondiale segnando subito sia pur nella sua porta, contro la Croazia, e dunque svelando sin dal principio che il Brasile di questi mondiali che casualmente si disputano a casa sua non ha nulla a che vedere con il Brasile. Quello vero. Che non c’è più. E forse non c’è più perché i suoi giocatori quasi tutti stanno nei club europei che – Bric o non Bric – evidentemente fanno loro guadagnare di più. Ma quel che fa guadagnare un singolo, 8 singoli o una squadra di calcio, che di singoli si nutre e sempre si è nutrita contrapponendosi al collettivo di squadre meno estrose ma ben più civili come Germania, Olanda anche – che però e pur essendo un po’ creativa non ha mai vinto nulla, o la fu Spagna di tiki taka memoria – fa perdere una nazione che non si è mai fatta imbrigliare in schemi “alla Sacchi” che Berlusconi pescò in quel dì di Fusignano provincia sperduta d’Italia che naufragò nella Marsiglia del gaglioffo Bernard Tapie per un black-out che oltre alle luci del campo rimise in gioco le coscienze individuali.
La Selecao, è quella di Falcao. Pelè andando più indietro. Messico ’70 o Spagna ’82 per citarne due. E il dottor Socrates, prematuramente scomparso anche per la sua propensione al bere, oltre che al pallone, intento a cercar difesa e attacco oltre le sponde calcistiche. E Junior, Zico, Ronaldo & Romario e insomma gente che faceva funzionare i piedi più del cervello o forse organo e supporto si muovevano in un sincrono incontrollato e incontrollabile, che rendeva tutto più accettabile.
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Mi sto bevendo la 2° Chimay – “tappo rosso”, perché quella “tappo  blu”, esageratamente alcolica, mi pare eccessiva con questo caldo – accompagnata con del formaggio che dà alla testa più della birra, un “Primintio” che mi fornisce la mia salumiera, sudato e molle (ma con una base bella dura) anche quando non ci sono temperature da altoforno come oggi. Mi sto fumando la prima sigaretta della giornata. Sono le 7 e un quarto del pomeriggio ed è stato appena espulso un giocatore dell’Italia che adesso avrà (avremo) un finale di grande sofferenza. I telecronisti della Rai, spaesati come al solito, snocciolano dati e cifre: ci sono 27 gradi e circa il 50 per cento di umidità sul campo di calcio del Mondiale. Qui da me di gradi ce ne sono 33 e l’umidità non è pervenuta. Accendo l’aria condizionata. C’è uno scatto di Immobile che, contravvenendo al suo nome, tenta una sortita fra le file avversarie. Ma il pallino ce l’ha l’Uruguay del presidente operaio Pepe Mujica – uno che è il contrario della nostra nomenclatura Napoletano in testa e che rinuncia ai suoi privilegi e emolumenti e che ha dichiarato, almeno stando a quanto scritto oggi su Repubblica: “Il Real Madrid ha un bilancio di 400 milioni l’anno. Io credo che questi soldi non li abbia spesi l’intero calcio uruguayo in tutta la vita.” L’Italia invece li ha spesi e continua a spenderli in Brasile nel magnifico resort dove alloggiano i nostri calciatori e il loro numeroso seguito. E chissà il conto se proseguiremo in questa ennesima avventura pallonara.
Mi chiama mio figlio che ha 7 anni e se ne frega dell’Italia del calcio e forse anche delle altre e dice: “Papà, devo fare la po po.” Lo accompagno in bagno e gli sistemo il panchetto dove lui poi sistema una serie di riviste e giornali e libri come per un lungo viaggio. Segna l’Uruguay. E’ il 35esimo del secondo tempo. Non ho capito se è stato un colpo di testa o non so che. Siamo al 40esimo. Pietro (mio figlio) è seduto beato in bagno. A uno dei telecronisti gli scappa: “E’ in difficoltà l’Uruguay.” Penso di accendermi la seconda sigaretta. Siamo entrati nel 45esimo. Di mio figlio nessuna notizia. E dire che nel bagno non c’è aria condizionata. Intanto comincia il recupero: 5 minuti. All’ultimo minuto c’è un tentativo di Barolo, ma non va, come una bottiglia di vino che sa di tappo. Mi chiama mio figlio che ha finito di fare la po po. Addento l’ultimo pezzetto di “Primintio” e vado a pulirlo. Non ho nemmeno la bandiera dell’Italia.
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Me ne sono andato a zonzo con la motocicletta. 5 giorni 4 notti. Pure mia moglie. Anzi la sua presenza era fondamentale visto che ho avuto la bella idea di festeggiare così i nostri primi dieci anni di matrimonio.
Siamo partiti dopo la sconfitta ai Mondiali dell’Italia per la seconda volta di fila e dunque 8 anni e dunque più di tutta la vita di mio figlio Pietro che di anni ne ha 7 e che dunque rimane pure lui fuori dai Mondiali. Noi nel frattempo stiamo consumando un matrimonio. L’altra figlia, Giulia, di anni ne ha 3 e nemmeno potrebbe essere ammessa ai gironi eliminatori, giacché la croce dei Mondiali si abbatte inesorabile sulla gente inerme soltanto ogni 4 anni.
Il rumore della sconfitta nelle orecchie sovrasta quello della motocicletta. A ogni curva, a ogni rettilineo, per i primi chilometri per fortuna, lo stolto chiacchiericcio italico dell’indomani è tutto nella mia testa. Professori, commentatori, giornalisti e analisti – nuova figura questa che vorrebbe dare più forza, più enfasi a quella ormai un po’ appannata del commentatore, come una società sull’orlo del fallimento che cambia pelle per sottrarsi ai creditori e proporsi agli investitori – si accapigliano e si raccontano l’un l’altro le loro profezie, i loro: “io l’avevo detto…”, “così non poteva andare…” etc. etc. Mai una voce fuori dal coro. Tutti sul carro del vincitore, quando c’è, sennò gli stessi tutti scappano dal carro a gambe levate. E allora giù botte da orbi ai responsabili del default. Ma siccome non si può imputare il fallimento dell’Italia pallonara a quello dell’Italia tout court, bisogna individuare l’agnello sacrificale, meglio se negro: dagli a Balotelli, lincialo. E’ colpa sua, è incostante e immaturo – certo attorno a vent’anni solo a Scampia o a Bogotà o nelle favelas di Rio, per restare in tema di “Mondiali”, si riesce a essere “maturi” – e non ha fatto i gol che ci servivano.
Balotelli scompare dalla mia testa – che comunque lo difende perlopiù – a 1600 metri sul livello del mare, dietro una curva il cui asfalto rimane un ricordo di quando hanno tracciato la strada dove adesso trotterella una famigliola di cinghiali, scrofa di perlomeno 100 chili in testa.
E’ questa l’Italia, che negli ultimi 50 anni ha cercato, forse inutilmente, di cancellare la sua vocazione agricola e poi con la globalizzazione (parola che come analista e commentatore vuol dire tutto e niente) e i tour operator di merci e persone ha smarrito il mondo contadino che si è riversato in quello cittadino. Che vorrebbe rappresentare il progresso, incompiuto come tutte le italiche trasformazioni da 150 anni a questa parte. 
6 (continua)

    

     
Siamo nel centro della Sicilia riarsa. Che dai tempi di Danilo Dolci non ha risolto il problema dell’acqua. Anche se adesso ci sono strutture ricettive erroneamente chiamate “Agriturismo” che hanno delle belle e comode piscine. Chissà dove la pigliano tutta quest’acqua, penso, questi agriturismi di lusso che non producono nulla nemmeno una marmellatina ma negli ultimi vent’anni sono sorti come i funghi. Adesso alcuni hanno mangiato la foglia che hanno mangiato pure i funzionari/ispettori/controllori che magari ogni tanto l’Europa (cioè Noi) manda in giro oltre ai soliti soldi che per quanti finanziamenti sostengono in tutto il continente non ci dovrebbe essere nemmeno un indigente. Hanno mangiato la foglia e hanno sostituito l’appellativo, la scritta, la ragione sociale o che diavolo è “Agriturismo”, con: “Turismo rurale”. Chissà, forse è la nostalgia dell’Italia contadina che ritorna prepotentemente dopo essere stata spinta in città e pigiata dentro falsi contenitori di civiltà e libertà come i call center. Oppure è l’ennesima furberia italica.
Dopo le alte Madonie scacciapensieri, coda appenninica dello Stivale che ha nascosto sotto il tacco la spedizione in Brasile (a proposito di rurale, è un enorme Paese dalle grandi piantagione o fazende con distanze che si percorrono in aereo quanto da noi con la corriera, pur con le contraddizioni e le enormi difficoltà che sta incontrando da quando siede al tavolo dei grandi, forse proprio perché fa parte del cosiddetto Bric che detta l’agenda al resto del mondo) c’immergiamo in secoli di storia, confortati da una solitudine che è difficile da capire. Se si vuol usare la logica.
Il museo regionale di Aidone – che da un paio d’anni ospita la statua di Venere, trafugata anni fa dagli scavi abbandonati e poi esportata e esposta al museo Paul Getty di Los Angeles – si affaccia sulla bella piazza della cittadina assolata e deserta. Nessun turista in giro, tranne noi. Nessun “Turismo rurale” nei dintorni. Solo una modesta trattoria dove si mangia (quasi) come a casa propria. Al Museo, gli impiegati affaccendati nel tentare di far passare il tempo, si lamentano di essere dimenticati: loro, la Venere e Aidone e anche la vicina Morgantina con i suoi preziosi scavi. E dire che a due passi da qui c’è la Villa Romana del Casale che invece macìna turisti e incassi. E pure l’”indotto” gongola, vedere il bar accanto l’ingresso della Villa che fa pagare una bottiglia d’acqua e un succo di frutta e nemmeno seduti  5 euro (…).
7 (continua)


I Mondiali sono passati da un pezzo. Cioè, una quindicina di giorni. Che coi tempi che corrono è moltissimo. L’estate avanza, siamo in quella fase interlocutoria fra l’attesa, l’inizio, che non è uguale per tutti ma solo per quei tutti che hanno o si danno gli stessi “tempi”: vacanze/ferie, villeggiatura, riposo, bricolage, giardinaggio; il tutto concentrato in una massimo due settimane sotto la canicola – almeno a queste nostre latitudini mediterranee – e coll’ansia di fare in fretta. Tutto il resto dell’anno potrà (dovrà) servire a raccontare il divertimento a ogni costo. Tout court. Ensemble.
Ma adesso siamo in quella fase interlocutoria, come dicevamo, fra l’attesa, l’inizio e la fine dell’estate. Che si ripete incessantemente ogni anno così come si ripetono, incessantemente ogni quattro anni, i mondiali di calcio. E si ripete l’attesa, l’ansia, la fine. Un po’ il ciclo vitale dell’uomo da quando nasce e forse anche prima.
Io forse sono più fortunato di questi vacanzieri a gettone e me ne sto nella mia casa di campagna da giugno a settembre. Un luogo sperduto sin dal nome della contrada che mi ha visto nascere e crescere, dapprima senza luce e adesso con i primi lunghi e vecchi neon malamente attaccati al muro o sopra le porte per la felicità di quando, alla fine degli anni sessanta, lo Stato portò fin qui la corrente elettrica, superati alla velocità della… luce e dimenticati in soffitta o in garage o gettati in discarica, non differenziata e spesso anche nel bosco, oppure in qualche torrente ormai sbarrato da pezzi di intonaci, suppellettili e fondamenta (per chi le ha) di case e casupole, frigoriferi. Tutto ciò che la luce ha portato e tutto ciò che nel frattempo si è portata via.
Io sono qui in questa contrada “Romito” che evoca ricordi, panorami e silenzi. Fanciullezza e adolescenza. Un fiume che non abbisogna di corrente elettrica di nessun gestore, visto che la cara vecchia Enel che quarant’anni addietro portò sin qui prese e contatori non è più il fornitore unico e obbligato di un mercato che infatti oggi si chiama “libero mercato”. Ma non tanto libero come ai tempi di lumini, stoppini, spirito, gas, olio e insomma dove veramente vigeva la libera interpretazione di quando e come illuminare il tempo.
Mio suocero è arrivato a casa e non c’era luce. Ma non si è rallegrato ripensando al tempo andato (e dire che lui ha vissuto molti più anni di me al buio) perché ha pensato che lui ha sempre pagato da quando tutti abbiamo la luce che significa – una cosa a caso visto che i Mondiali li abbiamo ancora freschi – in primis: t e l e v i s i o n e. Con buona pace di Hans Magnus Hensebbergher o come cacchio si chiama, lui, che diceva che la televisione è il nulla. Tanto valeva stare anche senza la luce.       
Invece nella mia casa di campagna in contrada Romito adesso c’abbiamo pure l’Adsl, wireless naturalmente.
Mio suocero però è al buio. Dunque senza televisione (e per questo s’incazza e gli scende la lacrima) ma anche senz’acqua perché pare che da quando qui c’è la luce tutti hanno pensato di sottomettere l’acqua che giunge in casa all’energia di un motorino elettrico che la porta su pure dall’inferno se necessario. Però, se se ne va la luce se ne va l’acqua. Mio suocero dunque è senza luce, senza televisione e senz’acqua. A dire il vero l’acqua la potrebbe andare a prendere al pozzo della vicina sorgiva come faceva quarant’anni addietro quando ancora da queste parti corrente elettrica non ce n’era e l’acqua si tirava a mano o al massimo con una pompa meccanica con l’avviamento a cordicella che spesso s’inceppava o ti slogavi il polso e allora ti lavavi e bevevi di meno.
Ma, a parte il fatto che mio suocero nel frattempo s’è un po’ imbolsito e anche invecchiato, questo è l’anno dei Mondiali e la luce deve splendere. Anche se l’Italia è già stata eliminata. Anche se i Mondiali sono finiti. D’altronde una cosa così capita ogni quattro anni. Allora mio suocero si prende di coraggio e va da quelli dell’energia elettrica.
8 (continua)

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