il finocchietto di Solunto – Novembre 2015
Il chiacchiericcio e il forte odore di caffè sono distinguibili sin dal piazzale sottostante l’ingresso e provengono dal museo dove stazionano 5 dipendenti dell’area archeologica di Solunto: 3 donne e 2 uomini che per fare passare il tempo del loro turno discettano su tutto. In questi giorni freschi dell’attentato di Parigi la loro attenzione è concentrata perlopiù sulle guerre di religione.
Fa
da contraltare a questo nutrito gruppetto, appartenente alla Regione Siciliana
come tutta l’area, una donna sola ma anche lei in forza alla benevola Regione,
seduta nell’antiquarium su un panchetto basso che è anche la biglietteria da
dove comincia la visita alle rovine di Solunto, città fondata dai fenici con
Mozia e Palermo e con le quali rivaleggiava nel traffico marittimo.
Sfortunatamente,
l’impiegata abbandonata non ha il resto. Il biglietto costa 4 euro e io gliene
offro 20: niente da fare non si può entrare. Sono quasi le due del pomeriggio e
non c’è anima viva oltre gli impiegati già citati e me. Mentre virtualmente
c’interroghiamo sul da farsi passa uno al quale l’impiegata cassiera si rivolge
in cerca di spiccioli. Ma non ne ha. Però ha un’idea che propone alla sua
collega, essendo anch’egli un altro addetto in forza lavoro alle rovine di
Solunto. “Lo fai salire e poi nel frattempo si vede – dice – intanto lo
accompagno io”. Prende una cassettina di cartone come quelle che contengono il
latte e partiamo. La via principale dell’area è la via dell’Agorà che è
lastricata in pietra e subito in forte salita. Fra uno sbuffo e un altro il mio
solerte accompagnatore dice che sta salendo perché deve cercare del muschio o
similare per una sua amica, per l’albero di Natale… Intanto mi fa da cicerone e
giunti a metà salita che ora un po’ spiana loda l’antica strada: “Qui non si
scivola – dice – e le scarpe fanno una bella presa, anche quando le pietre sono
bagnate”. Ma cos’è quella croce laggiù, faccio io, proprio sopra Porticello.
“Quella è una promessa… Perché ai tempi della guerra tutti gli uomini di
Porticello non tornarono a casa per tanti anni e allora quando poi fecero
ritorno le donne eressero questa croce…”.
La
giornata è bella e il sole picchia, siamo arrivati alla vasca dove l’impiegato
raccoglitore sperava di trovare il muschio ma nisba. Si consola riempiendo la
sua cassettina di finocchietto, perlopiù: “Eh, stasera c’ho la pasta con le
sarde…” – dice – mentre con mano sicura e agili salti coglie il finocchietto in
posti che sembra conoscere come le sue tasche. Alla sua amica del presepe non
pensa più: che mi abbia rifilato una balla, prima? Interlocutoria,
s’intende.
Le
nostre strade si dividono, continuo a salire tagliando per un sentiero pieno di
erbacce mentre lui colla cassettina già mezza piena rimane nella zone centrale
della città. Lo seguo da lontano e lo vedo zompare agilmente fra basole e
muretti. E’ anche lui un pezzo di storia.
Sono
passate un paio d’ore e ridiscendo dalla collina, incastrata sul monte
Catalfano che divide il sottostante capo Zafferano in due come una mela: a
sinistra il panorama si apre su quel che rimane dei giardini di Bagheria e a
destra c’è il mare a perdita d’occhio oltre Cefalù con l’entroterra a Scirocco
e i piccoli borghi di S. Elia e Porticello subito sotto la croce a strapiombo.
E’ un posto isolato e incantato ancora adesso e dove non mancavano gli agi,
come le terme, e si riescono a distinguere ancora gli elementi di sostegno del
pavimento che permettevano il passaggio dell’aria calda per riscaldare le
stanze e anche una piccola stanza con pavimento a mosaico che fungeva da vasca.
Poi c’è la grande casa patrizia di Leda con pareti affrescate in stile
pompeiano. E il panorama sublime con i 4 punti cardinali nitidi e ben visibili.
Fanno da contraltare le condizioni in cui versa l’intera area archeologica con
molti alberi caduti e ammassati – soprattutto nella parte alta della collina,
quella che guarda verso Bagheria e Palermo – e con arbusti, cespugli e insomma
la natura che la fa da padrona un po’ ovunque, che compromettono la fruizione
del sito pur non riuscendo a intaccarne l’emozione né lo spirito.
Alcuni
sentieri comunque non sono percorribili e inoltre sia l’impianto idrico che
quello elettrico sembrano al lumicino con fili bruciati – pare per un incendio
di un po’ di tempo fa – e numerosi punti acqua quasi tutti senz’acqua né tubi.
L’impiegata
abbandonata della biglietteria la ritrovo tale e quale e ovviamente è ancora
senza il resto: “Non è entrato nessuno” – dice, e me ne sono accorto visto che
durante la visita, a parte l’impiegato raccoglitore che mi ha accompagnato per
il tratto iniziale, non s’è visto nessuno. “Comunque, guardi, vada e concluda
la visita col museo (quello da dove al mio arrivo si sprigionava l’odore di
caffè e il chiacchiericcio), ecco il biglietto. Lei deve fare un servizio su
Solunto, no?”. Io ringrazio e sul minuto non mi accorgo che mi ha staccato uno
dei biglietti a ingresso gratuito, riservato a parecchie categorie come avevo
avuto modo di leggere sul regolamento del sito e lì affisso che al punto 12 riporta questa agevolazione
anche per i giornalisti, ovviamente nelle loro funzioni professionale. Ecco
perché…
Alessio
Gervasi
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