giovedì 14 gennaio 2016

il finocchietto di Solunto – Novembre 2015

Il chiacchiericcio e il forte odore di caffè sono distinguibili sin dal piazzale sottostante l’ingresso e provengono dal museo dove stazionano 5 dipendenti dell’area archeologica di Solunto: 3 donne e 2 uomini che per fare passare il tempo del loro turno discettano su tutto. In questi giorni freschi dell’attentato di Parigi la loro attenzione è concentrata perlopiù sulle guerre di religione.
Fa da contraltare a questo nutrito gruppetto, appartenente alla Regione Siciliana come tutta l’area, una donna sola ma anche lei in forza alla benevola Regione, seduta nell’antiquarium su un panchetto basso che è anche la biglietteria da dove comincia la visita alle rovine di Solunto, città fondata dai fenici con Mozia e Palermo e con le quali rivaleggiava nel traffico marittimo.
Sfortunatamente, l’impiegata abbandonata non ha il resto. Il biglietto costa 4 euro e io gliene offro 20: niente da fare non si può entrare. Sono quasi le due del pomeriggio e non c’è anima viva oltre gli impiegati già citati e me. Mentre virtualmente c’interroghiamo sul da farsi passa uno al quale l’impiegata cassiera si rivolge in cerca di spiccioli. Ma non ne ha. Però ha un’idea che propone alla sua collega, essendo anch’egli un altro addetto in forza lavoro alle rovine di Solunto. “Lo fai salire e poi nel frattempo si vede – dice – intanto lo accompagno io”. Prende una cassettina di cartone come quelle che contengono il latte e partiamo. La via principale dell’area è la via dell’Agorà che è lastricata in pietra e subito in forte salita. Fra uno sbuffo e un altro il mio solerte accompagnatore dice che sta salendo perché deve cercare del muschio o similare per una sua amica, per l’albero di Natale… Intanto mi fa da cicerone e giunti a metà salita che ora un po’ spiana loda l’antica strada: “Qui non si scivola – dice – e le scarpe fanno una bella presa, anche quando le pietre sono bagnate”. Ma cos’è quella croce laggiù, faccio io, proprio sopra Porticello. “Quella è una promessa… Perché ai tempi della guerra tutti gli uomini di Porticello non tornarono a casa per tanti anni e allora quando poi fecero ritorno le donne eressero questa croce…”.
La giornata è bella e il sole picchia, siamo arrivati alla vasca dove l’impiegato raccoglitore sperava di trovare il muschio ma nisba. Si consola riempiendo la sua cassettina di finocchietto, perlopiù: “Eh, stasera c’ho la pasta con le sarde…” – dice – mentre con mano sicura e agili salti coglie il finocchietto in posti che sembra conoscere come le sue tasche. Alla sua amica del presepe non pensa più: che mi abbia rifilato una balla, prima? Interlocutoria, s’intende.  
Le nostre strade si dividono, continuo a salire tagliando per un sentiero pieno di erbacce mentre lui colla cassettina già mezza piena rimane nella zone centrale della città. Lo seguo da lontano e lo vedo zompare agilmente fra basole e muretti. E’ anche lui un pezzo di storia.
Sono passate un paio d’ore e ridiscendo dalla collina, incastrata sul monte Catalfano che divide il sottostante capo Zafferano in due come una mela: a sinistra il panorama si apre su quel che rimane dei giardini di Bagheria e a destra c’è il mare a perdita d’occhio oltre Cefalù con l’entroterra a Scirocco e i piccoli borghi di S. Elia e Porticello subito sotto la croce a strapiombo. E’ un posto isolato e incantato ancora adesso e dove non mancavano gli agi, come le terme, e si riescono a distinguere ancora gli elementi di sostegno del pavimento che permettevano il passaggio dell’aria calda per riscaldare le stanze e anche una piccola stanza con pavimento a mosaico che fungeva da vasca. Poi c’è la grande casa patrizia di Leda con pareti affrescate in stile pompeiano. E il panorama sublime con i 4 punti cardinali nitidi e ben visibili. Fanno da contraltare le condizioni in cui versa l’intera area archeologica con molti alberi caduti e ammassati – soprattutto nella parte alta della collina, quella che guarda verso Bagheria e Palermo – e con arbusti, cespugli e insomma la natura che la fa da padrona un po’ ovunque, che compromettono la fruizione del sito pur non riuscendo a intaccarne l’emozione né lo spirito.
Alcuni sentieri comunque non sono percorribili e inoltre sia l’impianto idrico che quello elettrico sembrano al lumicino con fili bruciati – pare per un incendio di un po’ di tempo fa – e numerosi punti acqua quasi tutti senz’acqua né tubi.
L’impiegata abbandonata della biglietteria la ritrovo tale e quale e ovviamente è ancora senza il resto: “Non è entrato nessuno” – dice, e me ne sono accorto visto che durante la visita, a parte l’impiegato raccoglitore che mi ha accompagnato per il tratto iniziale, non s’è visto nessuno. “Comunque, guardi, vada e concluda la visita col museo (quello da dove al mio arrivo si sprigionava l’odore di caffè e il chiacchiericcio), ecco il biglietto. Lei deve fare un servizio su Solunto, no?”. Io ringrazio e sul minuto non mi accorgo che mi ha staccato uno dei biglietti a ingresso gratuito, riservato a parecchie categorie come avevo avuto modo di leggere sul regolamento del sito e lì affisso  che al punto 12 riporta questa agevolazione anche per i giornalisti, ovviamente nelle loro funzioni professionale. Ecco perché…          
Alessio Gervasi

   

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