sabato 10 gennaio 2015

Un giorno alla Serit


Alessio Gervasi, Palermo – Giovedì mattina sono andato alla Serit/Equitalia di Palermo per una cartella che peraltro era sbagliata e dunque nemmeno mi sarebbe dovuta arrivare né farmi scomodare. La sede di via Orsini era un inferno. I più mattinieri – mi hanno raccontato che il primo era lì dalle 4 del mattino e che alle 6.30 c'era già una fila di 50 persone – erano riusciti a entrare ma tutti gli altri vagavano per la sala d'aspetto come fantasmi. Un girone di poveracci, fantozziano – mai incontrato da quelle parti un chirurgo, un notaio, un dirigente etc. – molti dei quali con palesi problemi fisici: uno con le stampelle, un altro con l'occhio operato bendato e una coppia col sondino nel naso e un affare a tracolla collegato ai nasi con un tubicino da dove, presumo, si sprigionava il farmaco o l'ossigeno o quel che diavolo avevano di bisogno per portare il sondino tutti e due.
In tanta variegata umanità, incontro il mio amico Giancarlo affranto con una cartella non "pazza" come la mia e alquanto cara. Non ci vedevamo da tempo e abbiamo cominciato a chiacchierare ma i nostri numeri non facevano ben sperare. Il tabellone segnava 200 e noi avevamo suppergiù il 400. Mancava un quarto d'ora alla chiusura.
Tutt'un tratto un capannello di gente, poi 2 capannelli, poi 3. Dal basso si stava preparando quasi una riffa. La forza dei deboli e degli oppressi aguzza l'ingegno. All'una la Serit chiude e alla riapertura delle 14.30 il tabellone coi numeri ripartirà da zero per "disposizioni aziendali", con gli sportelli che resteranno aperti un'ora soltanto, fino alle 15.30. Allora ci si organizza per non aspettare. Ecco uno che comincia a prendere la lista della temuta lettera A (quella dei pagamenti) mentre un altro si occuperà di organizzare la fila della lettera E (quella delle rateizzazioni) mentre nell'altro capannello che si era formato proprio al centro della sala si discuteva se questo fosse il metodo giusto di procedere. Io e il mio amico Giancarlo soddisfatti per la posizione conquistata (alla riapertura pomeridiana saremmo stati all'incirca in decima posizione con buone possibilità di farcela), verso l'una e un quarto decidevamo di restare nelle vicinanze per non perdere la "priorità acquisita" e andare a mangiare un panino lì vicino. Non potevamo andarcene a casa perché avremmo perso troppo tempo. Altri si sistemano sul motore, al bar di fronte, chi sul marciapiedi o direttamente in macchina, spostata per l'occasione dalla 2° o 3° fila d'abitudine fin sotto il marciapiedi davanti il portone che, forse vista l'ora, era insolitamente sgombro.
Comodamente seduti a un tavolino e sotto un ombrellone abbiamo mangiato e chiacchierato (e bevuto) fino a che non si è fatta l’ora di tornare al lavoro. Cioè alla Serit di via Orsini dove i nostri bravi capipopolo/capifila governavano la folla colle loro liste A ed E ben in evidenza a rassicurare anche i più scettici. Alle 14.30 in punto si apre il grande portone per accogliere i tanti ospiti loro malgrado paganti e non c’è la temuta ressa ma disciplina e concordia. Spalleggiati dal metronotte della Serit che tiene aperto un angolo assai ristretto del portone i 2 capipopolo chiamano con voce stentorea i rispettivi turni. Il metronotte si sposta all’interno e governa la macchinetta che emette i numeri per il turno assoggettata a queste latitudini alla mente umana. Tutto si svolge in pochi minuti e la sala si riempie. A questo punto le strade mie e del mio amico Giancarlo si separano. Io ho il turno E e lui quello A. Anziché la rateizzazione io ottengo naturalmente lo sgravio. Lui sborsa parecchie centinaia di euro per una “dimenticanza” di qualche anno prima. Non aveva pagato la tassa sull’immondizia. Ma è contento. Grazie all’efficiente crudeltà di Serit/Equitalia che non si cura di coccolare i propri clienti come fanno invece tutte le altre aziende che devono vendere qualcosa a qualcuno, lui ha passato una bella giornata. E anch’io, devo dire. Ci abbracciamo e ci salutiamo. Usciamo fuori sorridenti. Scansiamo le cataste d’immondizia e continuando a salutarci come vecchi commilitoni che si ritrovano a guerra finita ce ne torniamo a casa. 

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