Un’estate per i
Mondiali
Quand’ero
piccolo io, i cibi non si congelavano e per cambiare canale bisognava alzarsi e
andare a girare la manopola del televisore; una necessità, questa, fisica, che
però ne scatenava una mentale, posto che bisognava pure scegliere quale canale
sintonizzare – girando la manopola diabolica che spesso di canali ne
sintonizzava due o anche tre con un incredibile intreccio di trame e storie, film
e cartoni, documentari, anche – quantomeno se ci si voleva un poco riposare fra
un giro di manopola e un altro. Questo fatto rimanderebbe a un altro problema e
cioè che c’era chi, pensando al futuro prossimo venturo, programmava – a
proposito di canali e dunque il ripetere il gesto di alzarsi dalla
poltrona/sedia – e chi invece non era previdente e si alzava di continuo o,
perché no, restava in piedi per tutto il tempo che decideva di guardare la Tv.
Altra opzione, questa, di quand’ero piccolo io.
Oggi
invece, a parte il fatto che i cibi perlopiù si congelano, è come se si
congelassero, fatemi passare il termine, anche i canali della Tv, col
telecomando, che come il tridente di Nettuno impugniamo comodamente sdraiati
sul divano. Il risultato di tale comodità spesso sta nel pisolino cui induce la
moderna visione della televisione.
Pisolino
che però viene messo a rischio dalla crescente modernità che, pur con tutti gli
ammennicoli vari come telecomando, doppio telecomando, video registratore, dvd,
Sky, programmi in chiaro o criptati, il più delle volte non consente una libera
e scanzonata fruizione della televisione.
I
mondiali di calcio appena iniziati – di cui si possono “liberamente” vedere
poche partite – sono l’ultima campanella per chi è stato, finora, un po’ duro
d’orecchi e non s’è accorto che il calcio, che ha sempre azzerato le classi
sociali come una sorta di rivoluzione dal basso che per il tempo di una partita
mette sotto lo stesso piano servi e re, non funziona più come una cerniera che
chiunque può aprire ma, pur restando e anzi sopravanzando quell’”oppio del
popolo” che sta a tutti a cuore per i benèfici effetti rilassanti
(rincoglionimento), viene fatto pagare a caro prezzo. Lo stesso, si può dire
per il campionato del mondo di motociclismo, per il tennis – pensate a
Wimbledon, il “tempio” del tennis che oggi è accessibile solamente per chi
sottoscrive un abbonamento e scuce denari – e una serie infinita di film: una
programmazione che aumenta, rimarca e rafforza quanto l’anatocismo bancario le
differenze di classe e, naturalmente, di portafoglio.
Una
cosa, questa, quanto lo stesso anatocismo nelle sue variegate epoche e forme,
che, anche se non si congelavano i cibi e non esisteva il telecomando, c’era
pure quand’ero piccolo io.
1 (continua)
Dai
mondiali 2014 emergono soprattutto 2 cose. Più altre tante, a cascata. Di cui
vi daremo conto in seguito.
1)
Nulla è per sempre e la Spagna ne è testimone.
Quel che andava bene ieri non vale una cicca oggi. Il Cile, di Allende memoria
– sarà contento Luis Sepulveda – sembra spazzar via il tiki taka iberico come cenere su una brace consumata. E non è solo
calcio: la costa del Sol, la costa Brava e palazzoni come a Benidorm per
un’edilizia senza freno che ha tenuto alto il vessillo della Spagna sembrano
svaniti come e più del crollo economico iberico degli ultimi 2/3 anni. I
campioni del mondo ammirati da tutti sono scomparsi. Come il Brasile padrone di
casa che – arbitri amici a parte sin dall’esordio – fatica e annuncia sfracelli
e suicidi con previsioni di vincitori in un Paese dove le favelas rivendicano
sempre più il loro ruolo. Non ci possono essere due motori, due mondi in uno e
sempre i ricchi contro i poveri. Il mondo si restringe ogni giorno di più.
Anche se pare allargarsi.
2)
Le dirette televisive, che dovrebbero garantire
uno spettacolo uguale per tutti, sono
fortemente condizionate dai padroni
del calcio e della pubblicità che però, in realtà, subiscono i mutamenti del
pallone e i segni del tempo. Tempo che rimanda a un passato ignoto, soprattutto
a chi ha memoria corta – nel senso largo del termine – e fatto di colpi di
genio, di casualità. Questi mondiali invece, appannaggio di Sky con la
cenerentola Rai, restituiscono – nell’epoca di internet e della rete che
annuncia in anticipo ogni cosa anche un temporale – una realtà dal basso che
annuisce e suggerisce prudenza. E dato che il calcio negli ultimi decenni si è
sostituito a quell’oppio dei popoli che per secoli ha governato e schiacciato
ogni pensiero, gli scheletri che affiorano sono sorprendenti. Non importa chi
vince. In questo caleidoscopio, resiste, per ora, soltanto la Germania alter
ego della Merkel che scoppia di salute in tribuna come il partigiano Pertini
nel 1982 quando alzava le braccia al cielo per annunciare al mondo la vittoria
dell’allenatore colla pipa Bearzot che a gran fatica – e con un po’ di culo va detto – tirava fuori l’Italia
dal ghetto.
2 (continua)
Io i
primi 10 minuti del secondo tempo di Italia Costa Rica non li ho visti. Se n’è
andato il segnale – segnale debole o assente – c’era scritto sulla tivvù.
Allora prima mi sono infuriato, anche perché la partita fin lì non era messa
molto bene, almeno per l’Italia, invece per il/la Costa Rica che ancora non si
è capito se questa nazione senza esercito e che ha sostituito il Pil col Pif (prodotto interno felicità anziché lordo)
sia maschio o femmina, tutto girava per il verso giusto. Allora, mi sono
infuriato e ho cominciato a sbattere le cose e a prendermela con Gasparri,
perché di lui mi ricordo, oltre al fatto che, incredibilmente è stato un
ministro della Repubblica, come uno degli artefici del digitale terrestre. Che sembra quasi un titolo da cartone animato.
Invece era un miracolo (promesso) che anziché moltiplicare il pane o i pesci
avrebbe snocciolato canali televisivi come sentenze.
Ma
tutte queste sentenze (canali) non arrivavano tranne una: bisognava cambiare
antenna, e mettere pure un gingillo come trait
d’union nel televisore. Meglio ancora, comprarne uno nuovo, che già il
gingillo (decoder) l’avrebbe avuto incorporato. Dunque, il digitale terrestre
nemmeno c’era che già si dovevano scucire denari. Al solito. Però, ripeteva il
Ministro che una volta si chiamava “delle Poste e Telecomunicazioni” e che,
magari a sua insaputa, faceva e diceva cose, però la televisione cambierà (in
meglio) e i canali si vedranno di un colore e di un chiarore da paradiso
terrestre.
Mentre
pensavo tutte queste cose e guardavo l’orologio per capire a che punto del
secondo tempo eravamo, con lo schermo (piatto) della tivvù di un nero che
nemmeno il mare lontano di notte, ho avuto un lampo, tipico dei momenti di
difficoltà quando la mente si accende: la radio. Ecco. La radio, da Nicolò
Carosio a “scusa Ameri scusa Ameri”…
senza dimenticare Radio Londra, naturalmente. Quante cose ha portato dentro le
case e le teste degli italiani. Santo, Marconi.
Spengo
la tivvù e accendo la radio. Giro manopole e bottoni e l’apparecchio sputa il
gracchiare concitato della radiocronaca senza fronzoli e commenti deficienti
come quelli dell’opinionista di turno seduto con cuffia e cravatta in tivvù
(quando si vede) accanto al giornalista che conduce la telecronaca.
Però,
rimango nervoso pensando a Gasparri. E non capisco se sono nervoso perché non
riesco a vedere la partita o se invece, è il pensiero (si fa per dire) di
Gasparri a scatenarmi. Oppure perché l’Italia sta perdendo.
3 (continua)
Il
Brasile, che fa parte del Bric
(Brasile, Russia, India, Cina e l’economia che gestisce il resto del mondo) fa
la voce grossa col Camerun, già fuori dai Mondiali e anche dalla vita
quotidiana del XXI secolo, e con quel che resta del calcio spettacolo, che ci
ha abituato, educato fin da bambini a dire: ma che è, il Brasile? – appena
qualcosa andava oltre la linea di convenzione in qualsiasi sport – ma poi, via
via la convenzione si è applicata a qualsiasi cosa.
Neymar
è l’uomo della provvidenza ma sembra un incrocio fra Roberto Boninsegna e Eros
Ramazzotti. Anche fisicamente. E ai tempi dell’interista “malacarne” e principe degli sfottò non c’erano steroidi né bombe
chimiche, nemmeno Tavernello, forse. Per quanto riguarda il nostro cantante
assai amato dagli ispanici, anche lui è un calciatore, delle volte. Ma oggi
niente fenomeni tranne che per i commentatori Rai – Sky non sappiamo perché non
paghiamo – che si entusiasmano anziché stupirsi per la scomparsa del calcio
carioca che a tutti noi ha sempre insegnato qualcosa.
Ora,
a parte Marcelo che ha una eccessiva somiglianza col nostro amato attore
Ficarra e che ha cominciato il mondiale segnando subito sia pur nella sua
porta, contro la Croazia, e dunque svelando sin dal principio che il Brasile di
questi mondiali che casualmente si disputano a casa sua non ha nulla a che
vedere con il Brasile. Quello vero. Che non c’è più. E forse non c’è più perché
i suoi giocatori quasi tutti stanno nei club europei che – Bric o non Bric –
evidentemente fanno loro guadagnare di più. Ma quel che fa guadagnare un
singolo, 8 singoli o una squadra di calcio, che di singoli si nutre e sempre si
è nutrita contrapponendosi al collettivo di squadre meno estrose ma ben più
civili come Germania, Olanda anche – che però e pur essendo un po’ creativa non
ha mai vinto nulla, o la fu Spagna di tiki
taka memoria – fa perdere una nazione che non si è mai fatta imbrigliare in
schemi “alla Sacchi” che Berlusconi pescò in quel dì di Fusignano provincia
sperduta d’Italia che naufragò nella Marsiglia del gaglioffo Bernard Tapie per
un black-out che oltre alle luci del
campo rimise in gioco le coscienze individuali.
La Selecao, è quella di Falcao. Pelè
andando più indietro. Messico ’70 o Spagna ’82 per citarne due. E il dottor
Socrates, prematuramente scomparso anche per la sua propensione al bere, oltre
che al pallone, intento a cercar difesa e attacco oltre le sponde calcistiche.
E Junior, Zico, Ronaldo & Romario e insomma gente che faceva funzionare i
piedi più del cervello o forse organo e supporto si muovevano in un sincrono
incontrollato e incontrollabile, che rendeva tutto più accettabile.
4 (continua)
Mi
sto bevendo la 2° Chimay – “tappo rosso”, perché quella “tappo blu”, esageratamente alcolica, mi pare
eccessiva con questo caldo – accompagnata con del formaggio che dà alla testa
più della birra, un “Primintio” che mi fornisce la mia salumiera, sudato e
molle (ma con una base bella dura) anche quando non ci sono temperature da
altoforno come oggi. Mi sto fumando la prima sigaretta della giornata. Sono le
7 e un quarto del pomeriggio ed è stato appena espulso un giocatore dell’Italia
che adesso avrà (avremo) un finale di grande sofferenza. I telecronisti della
Rai, spaesati come al solito, snocciolano dati e cifre: ci sono 27 gradi e
circa il 50 per cento di umidità sul campo di calcio del Mondiale. Qui da me di
gradi ce ne sono 33 e l’umidità non è pervenuta. Accendo l’aria condizionata.
C’è uno scatto di Immobile che, contravvenendo al suo nome, tenta una sortita
fra le file avversarie. Ma il pallino ce l’ha l’Uruguay del presidente operaio
Pepe Mujica – uno che è il contrario della nostra nomenclatura Napoletano in
testa e che rinuncia ai suoi privilegi e emolumenti e che ha dichiarato, almeno
stando a quanto scritto oggi su Repubblica: “Il Real Madrid ha un bilancio di
400 milioni l’anno. Io credo che questi soldi non li abbia spesi l’intero
calcio uruguayo in tutta la vita.” L’Italia invece li ha spesi e continua a
spenderli in Brasile nel magnifico resort
dove alloggiano i nostri calciatori e il loro numeroso seguito. E chissà il
conto se proseguiremo in questa ennesima avventura pallonara.
Mi
chiama mio figlio che ha 7 anni e se ne frega dell’Italia del calcio e forse
anche delle altre e dice: “Papà, devo fare la po po.” Lo accompagno in bagno e gli sistemo il panchetto dove lui
poi sistema una serie di riviste e giornali e libri come per un lungo viaggio.
Segna l’Uruguay. E’ il 35esimo del secondo tempo. Non ho capito se è stato un
colpo di testa o non so che. Siamo al 40esimo. Pietro (mio figlio) è seduto
beato in bagno. A uno dei telecronisti gli scappa: “E’ in difficoltà
l’Uruguay.” Penso di accendermi la seconda sigaretta. Siamo entrati nel
45esimo. Di mio figlio nessuna notizia. E dire che nel bagno non c’è aria
condizionata. Intanto comincia il recupero: 5 minuti. All’ultimo minuto c’è un
tentativo di Barolo, ma non va, come una bottiglia di vino che sa di tappo. Mi
chiama mio figlio che ha finito di fare la po
po. Addento l’ultimo pezzetto di “Primintio” e vado a pulirlo. Non ho
nemmeno la bandiera dell’Italia.
5 (continua)
Me
ne sono andato a zonzo con la motocicletta. 5 giorni 4 notti. Pure mia moglie.
Anzi la sua presenza era fondamentale visto che ho avuto la bella idea di
festeggiare così i nostri primi dieci anni di matrimonio.
Siamo
partiti dopo la sconfitta ai Mondiali dell’Italia per la seconda volta di fila
e dunque 8 anni e dunque più di tutta la vita di mio figlio Pietro che di anni
ne ha 7 e che dunque rimane pure lui fuori dai Mondiali. Noi nel frattempo
stiamo consumando un matrimonio. L’altra figlia, Giulia, di anni ne ha 3 e
nemmeno potrebbe essere ammessa ai gironi eliminatori, giacché la croce dei
Mondiali si abbatte inesorabile sulla gente inerme soltanto ogni 4 anni.
Il
rumore della sconfitta nelle orecchie sovrasta quello della motocicletta. A
ogni curva, a ogni rettilineo, per i primi chilometri per fortuna, lo stolto chiacchiericcio
italico dell’indomani è tutto nella mia testa. Professori, commentatori,
giornalisti e analisti – nuova figura questa che vorrebbe dare più forza, più
enfasi a quella ormai un po’ appannata del commentatore, come una società
sull’orlo del fallimento che cambia pelle per sottrarsi ai creditori e proporsi
agli investitori – si accapigliano e si raccontano l’un l’altro le loro
profezie, i loro: “io l’avevo detto…”, “così non poteva andare…” etc. etc. Mai
una voce fuori dal coro. Tutti sul carro del vincitore, quando c’è, sennò gli
stessi tutti scappano dal carro a gambe levate. E allora giù botte da orbi ai
responsabili del default. Ma siccome non si può imputare il fallimento
dell’Italia pallonara a quello
dell’Italia tout court, bisogna
individuare l’agnello sacrificale, meglio se negro: dagli a Balotelli,
lincialo. E’ colpa sua, è incostante e immaturo – certo attorno a vent’anni
solo a Scampia o a Bogotà o nelle favelas
di Rio, per restare in tema di “Mondiali”, si riesce a essere “maturi” – e non
ha fatto i gol che ci servivano.
Balotelli
scompare dalla mia testa – che comunque lo difende perlopiù – a 1600 metri sul
livello del mare, dietro una curva il cui asfalto rimane un ricordo di quando
hanno tracciato la strada dove adesso trotterella una famigliola di cinghiali,
scrofa di perlomeno 100 chili in testa.
E’
questa l’Italia, che negli ultimi 50 anni ha cercato, forse inutilmente, di
cancellare la sua vocazione agricola e poi con la globalizzazione (parola che
come analista e commentatore vuol dire tutto e niente) e i tour operator di merci e persone ha smarrito il mondo contadino che
si è riversato in quello cittadino. Che vorrebbe rappresentare il progresso,
incompiuto come tutte le italiche trasformazioni da 150 anni a questa
parte.
6 (continua)
Siamo
nel centro della Sicilia riarsa. Che dai tempi di Danilo Dolci non ha risolto
il problema dell’acqua. Anche se adesso ci sono strutture ricettive
erroneamente chiamate “Agriturismo” che hanno delle belle e comode piscine. Chissà
dove la pigliano tutta quest’acqua, penso, questi agriturismi di lusso che non
producono nulla nemmeno una marmellatina ma negli ultimi vent’anni sono sorti
come i funghi. Adesso alcuni hanno mangiato la foglia che hanno mangiato pure i
funzionari/ispettori/controllori che magari ogni tanto l’Europa (cioè Noi)
manda in giro oltre ai soliti soldi che per quanti finanziamenti sostengono in
tutto il continente non ci dovrebbe essere nemmeno un indigente. Hanno mangiato
la foglia e hanno sostituito l’appellativo, la scritta, la ragione sociale o
che diavolo è “Agriturismo”, con: “Turismo rurale”. Chissà, forse è la
nostalgia dell’Italia contadina che ritorna prepotentemente dopo essere stata
spinta in città e pigiata dentro falsi contenitori di civiltà e libertà come i call center. Oppure è l’ennesima
furberia italica.
Dopo
le alte Madonie scacciapensieri, coda appenninica dello Stivale che ha nascosto
sotto il tacco la spedizione in Brasile (a proposito di rurale, è un enorme
Paese dalle grandi piantagione o fazende
con distanze che si percorrono in aereo quanto da noi con la corriera, pur con le contraddizioni e le
enormi difficoltà che sta incontrando da quando siede al tavolo dei grandi,
forse proprio perché fa parte del cosiddetto Bric che detta l’agenda al resto
del mondo) c’immergiamo in secoli di storia, confortati da una solitudine che è
difficile da capire. Se si vuol usare la logica.
Il
museo regionale di Aidone – che da un paio d’anni ospita la statua di Venere,
trafugata anni fa dagli scavi abbandonati e poi esportata e esposta al museo
Paul Getty di Los Angeles – si affaccia sulla bella piazza della cittadina
assolata e deserta. Nessun turista in giro, tranne noi. Nessun “Turismo rurale”
nei dintorni. Solo una modesta trattoria dove si mangia (quasi) come a casa
propria. Al Museo, gli impiegati affaccendati nel tentare di far passare il
tempo, si lamentano di essere dimenticati: loro, la Venere e Aidone e anche la
vicina Morgantina con i suoi preziosi scavi. E dire che a due passi da qui c’è
la Villa Romana del Casale che invece macìna turisti e incassi. E pure
l’”indotto” gongola, vedere il bar accanto l’ingresso della Villa che fa pagare
una bottiglia d’acqua e un succo di frutta e nemmeno seduti 5 euro (…).
7 (continua)
I
Mondiali sono passati da un pezzo. Cioè, una quindicina di giorni. Che coi
tempi che corrono è moltissimo. L’estate avanza, siamo in quella fase
interlocutoria fra l’attesa, l’inizio, che non è uguale per tutti ma solo per
quei tutti che hanno o si danno gli stessi “tempi”: vacanze/ferie,
villeggiatura, riposo, bricolage, giardinaggio; il tutto concentrato in una
massimo due settimane sotto la canicola – almeno a queste nostre latitudini
mediterranee – e coll’ansia di fare in fretta. Tutto il resto dell’anno potrà
(dovrà) servire a raccontare il divertimento a ogni costo. Tout court.
Ensemble.
Ma
adesso siamo in quella fase interlocutoria, come dicevamo, fra l’attesa,
l’inizio e la fine dell’estate. Che si ripete incessantemente ogni anno così
come si ripetono, incessantemente ogni quattro anni, i mondiali di calcio. E si
ripete l’attesa, l’ansia, la fine. Un po’ il ciclo vitale dell’uomo da quando
nasce e forse anche prima.
Io
forse sono più fortunato di questi vacanzieri a gettone e me ne sto nella mia
casa di campagna da giugno a settembre. Un luogo sperduto sin dal nome della
contrada che mi ha visto nascere e crescere, dapprima senza luce e adesso con i
primi lunghi e vecchi neon malamente attaccati al muro o sopra le porte per la
felicità di quando, alla fine degli anni sessanta, lo Stato portò fin qui la
corrente elettrica, superati alla velocità della… luce e dimenticati in
soffitta o in garage o gettati in discarica, non differenziata e spesso anche
nel bosco, oppure in qualche torrente ormai sbarrato da pezzi di intonaci,
suppellettili e fondamenta (per chi le ha) di case e casupole, frigoriferi.
Tutto ciò che la luce ha portato e tutto ciò che nel frattempo si è portata
via.
Io
sono qui in questa contrada “Romito” che evoca ricordi, panorami e silenzi.
Fanciullezza e adolescenza. Un fiume che non abbisogna di corrente elettrica di
nessun gestore, visto che la cara vecchia Enel che quarant’anni addietro portò
sin qui prese e contatori non è più il fornitore unico e obbligato di un
mercato che infatti oggi si chiama “libero mercato”. Ma non tanto libero come
ai tempi di lumini, stoppini, spirito, gas, olio e insomma dove veramente
vigeva la libera interpretazione di quando e come illuminare il tempo.
Mio
suocero è arrivato a casa e non c’era luce. Ma non si è rallegrato ripensando
al tempo andato (e dire che lui ha vissuto molti più anni di me al buio) perché
ha pensato che lui ha sempre pagato da quando tutti abbiamo la luce che
significa – una cosa a caso visto che i Mondiali li abbiamo ancora freschi – in primis: t e l e v i s i o n e. Con
buona pace di Hans Magnus Hensebbergher o come cacchio si chiama, lui, che
diceva che la televisione è il nulla. Tanto valeva stare anche senza la
luce.
Invece
nella mia casa di campagna in contrada Romito adesso c’abbiamo pure l’Adsl,
wireless naturalmente.
Mio
suocero però è al buio. Dunque senza televisione (e per questo s’incazza e gli
scende la lacrima) ma anche senz’acqua perché pare che da quando qui c’è la
luce tutti hanno pensato di sottomettere l’acqua che giunge in casa all’energia
di un motorino elettrico che la porta su pure dall’inferno se necessario. Però,
se se ne va la luce se ne va l’acqua. Mio suocero dunque è senza luce, senza
televisione e senz’acqua. A dire il vero l’acqua la potrebbe andare a prendere
al pozzo della vicina sorgiva come faceva quarant’anni addietro quando ancora
da queste parti corrente elettrica non ce n’era e l’acqua si tirava a mano o al
massimo con una pompa meccanica con l’avviamento a cordicella che spesso
s’inceppava o ti slogavi il polso e allora ti lavavi e bevevi di meno.
Ma,
a parte il fatto che mio suocero nel frattempo s’è un po’ imbolsito e anche
invecchiato, questo è l’anno dei Mondiali e la luce deve splendere. Anche se
l’Italia è già stata eliminata. Anche se i Mondiali sono finiti. D’altronde una
cosa così capita ogni quattro anni. Allora mio suocero si prende di coraggio e
va da quelli dell’energia elettrica.
8 (continua)